Perché alla vigilia del maxi processo di Roma si moltiplicano gli attacchi ai giornalisti che hanno informato i lettori su uno scandalo che non ha precedenti
A poche settimane dall’inizio del processo di Roma noto come “Mafia Capitale”, che prenderà il via il 5 novembre, alcune prese di posizione hanno rivelato l’insofferenza per il ruolo della stampa e per i cronisti che, nelle varie fasi delle indagini, hanno diffuso ampie informazioni sull’impianto accusatorio e sugli addebiti mossi ai singoli imputati. In particolare, colpisce l’attacco di un gruppo di penalisti a decine di cronisti giudiziari e il tentativo di qualcuno di loro di isolare il giornalista Lirio Abbate denigrandolo sarcasticamente.
La libertà di esprimere opinioni, la dialettica e il pluralismo sono fuori discussione, come anche il fatto che le opinioni possono essere confutate e che tocca ai giudici del Tribunale accertare l’effettiva colpevolezza di ciascuno degli imputati. E’ evidente. Ma è ancora più evidente che era ed è doveroso per i giornali e per qualsiasi giornalista informare i cittadini nel modo più chiaro ed ampio possibile, soprattuto di fronte all’esplodere di uno scandalo di così vaste proporzioni. La scoperta di una organizzazione criminale mafiosa a Roma non ha precedenti ed è comprensibile che abbia scosso convinzioni radicate dell’opinione pubblica, prima fra tutte la convinzione che Roma fosse immune dalla presenza attiva di organizzazioni criminali organizzate con modalità mafiosa. Era perciò utile, necessaria, doverosa la copertura giornalistica più ampia di questo fatto.
La Camera Penale di Roma ci ha fatto sapere in questi giorni che non la pensa così. Con un esposto-denuncia al Procuratore della Repubblica, l’associazione rappresentativa della categoria a cui aderiscono su base volontaria gli avvocati penalisti della Capitale ha accusato 92 giornalisti di avere violato il divieto di pubblicazione degli atti giudiziari previsto dall’art.114 del Codice di Procedura Penale e anche le norme deontologiche della loro professione. Lo avrebbero fatto in occasione delle due ondate di arresti, la prima a dicembre del 2014 e la seconda a giugno del 2015, pubblicando 278 articoli su 14 giornali, riferendo contenuti e parti testuali delle ordinanze di custodia cautelare in carcere. Non si ricorda una contestazione collettiva così ampia di questo reato.
Un valoroso cronista di lunga esperienza che ha visto altre volte queste contrapposizioni fra legali e cronisti, il mio amico Attilio Bolzoni, vede nell’iniziativa della Camera Penale una sorta di riflesso condizionato. Anche a Palermo, ricorda, alla vigilia del maxi processo a Cosa Nostra, nel 1987, i penalisti rivolsero accuse del genere ai giornalisti. Ma non ci fu un’iniziativa formale né nulla di tanto clamoroso. “Stavolta non capisco quale sia l’obiettivo. Forse vogliono che il maxi processo si faccia ai giornalisti e non ai mafiosi?”, dice con amara ironia.
“O tempora o mores!”, direbbe il Nostro. Ai tempi in cui la Camera Penale, per due mandati, fu presieduta con grande prestigio dall’avv. Oreste Flamminii Minuto una reazione del genere sarebbe stata impensabile. Il grande avvocato insegnava che il giornalista che viene in possesso di atti coperti dal segreto ha il dovere di pubblicarli, se essi contengono informazioni rilevanti di pubblico interesse, perché egli agisce nell’interesse dei cittadini.
I cronisti che osservano la deontologia seguono questo insegnamento, che non è un’istigazione a commettere un reato, ma ad applicare lo spirito di altre norme più aperte, come ad esempio l’art. 326 del c.p. che punisce con grande severita il pubblico ufficiale o la persona incaricata di un pubblico servizio che rivela informazioni riservate (a proposito, non dovrebbero essere loro il bersaglio della Camera Penale?), ma solo a condizione che lo faccia “violando i doveri inerenti alle funzioni o al servizio, o comunque abusando della sua qualità”.
In questo spirito, da sempre e spesso, i cronisti giudiziari e i direttori responsabili, violano l’art.114 del cpp. Lo fanno per professare il loro dovere professionale. Lo fanno in nome dell’art. 51 del C.P. che esclude la punibilità di chi agisce nell’esercizio di un dovere imposto da una norma giuridica (la legge istitutiva dell’Ordone dei Giornalisti) o nell’adempimento di un diritto, in questo caso quello previsto dall’art.21 della Costituzione. Lo fanno accettando il rischio di essere puniti, ai sensi dell’art. 684 del Codice Penale, con un’oblazione da 50 a 251 euro.
In alternativa, la norma prevede, l’arresto fino a 30 giorni. Ma nessuno dei penalisti che ho consultato ricorda che l’arresto sia mai stato inflitto. C’è una prassi consolidata per cui in questi casi i giornalisti pagano l’oblazione come fosse una tassa impropria sulla pubblicazione delle notizie. Non è giusto, non è lineare. Ma sarà così finché un legislatore lungimirante e illuminato (lo aspettiamo da tempo) non aggiungerà ai codici una norma esplicita che riconosca pienamente la funzione pubblica dell’informazione di pubblico interesse che viene prodotta e diffusa nell’interesse dei cittadini. Finché quel legislatore che sogniamo offrirà la doverosa protezione penale al diritto di espressione e di stampa, come ha chiesto recentemente la Commissione Parlamentare Antimafia. Queste norme sono necessarie per colmare un vuoto legislativo che consente queste ed altre accuse strumentali e impone un percorso giudiziario tortuoso al giornalista accusato di avere violato reputazione e segreti.
Ben più grave e preoccupante è il tentativo di alcuni di sminuire il significato del processo a Mafia Capitale isolando dai suoi colleghi il giornalista Lirio Abbate che per primo, tre anni prima dell’idagine giudiziaria ha scritto su un giornale quale intreccio politico affarisco criminale era all’opera a Roma. Per le sue inchieste sul campo, condotte in esclusiva, per le quali è stato ripetutamente minacciato e un anno fa ha subito un vero e proprio assalto, Liro Abbate, che dal 2007 vive sotto scorta a causa di ripetute minacce di morte, non merita il sarcasmo e la denigrazione di cui lo fanno oggetto i difensori di alcuni imputati di Mafia Capitale. Merita piuttosto un altro premio giornalistico, da aggiungere al ricco medagliere.
Il lavoro di Lirio Abbate è la risposta a chi ogni tanto, svagatamente, dice che purtroppo in Italia non si fa più il giornalismo di inchiesta di una volta, quel giornalismo che non ricava le informazioni dalle carte giudiziarie ma cerca le notizie per strada, consumando le suole delle scarpe. Questa affermazione fa il paio con l’affermazione che non esistono più le mezze stagioni. La storia di Lirio Abbate e quella di altri trenta o forse cinquanta giornalisti che come lui vivono sotto scorta a causa delle minacce ricevute per il loro lavoro, dimostra che quelle inchieste alcuni le fanno ancora, ma fare le inchieste giornalistiche è diventato molto molto pericoloso in questo paese in cui molti si accontantano di informazioni superficiali raccolte a volo d’uccello. C’è ancora – per nostra fortuna – chi, come Lirio Abbate, non si rassegna a guardare le cose da lontano, a ricavare le informazioni da comunicati stampa o veline addomesticate, ma va a cercare le informazioni sfidando i pericoli che ciò comporta, anche quando ciò significa mettere in gioco la propria vita.
Il tentativo di far credere che il giornalista più bravo sia quello che non fa inchieste è palesemente strumentale. Questa affermazione mi indigna quanto l’elogio della sentinella che lascia a qualcun altro il compito di scrutare nel buio e di dare l’allarme.
Abbiamo già visto al processo di Bologna operazioni simili. Un imputato di mafia ha platealmente tentato di convincere i giudici che non avrebbero dovuto processare lui, accusato di gravi reati, ma il giornalista Giovanni Tizian che con i suoi articoli lo aveva messo nei guai scoperchiando il pentolone e mettendo in luce gli affari per cui è accusato di mafia. Si possono evitare gli scandali con il silenzio e l’inazione giudiziaria. E’ una vecchia ricetta che fa incancrenire il male. In Italia questa ricetta è stata applicata molte, troppe volte, anche di recente, e ha prodotto l’Italia dei misteri insoluti, delle stragi impunite, delle collusioni tollerate alla luce del sole, della corruzione che inghiotte i soldi con cui il paese potrebbe essere ricco e generoso con i più deboli. Per mettere fine a quella stagione dobbiamo difendere chi, come Lirio Abbate, come centinaia di giornalisti che ogni anno, come lui, vengono minacciati o intimiditi per lo stesso motivo, vuole esercitare il diritto costituzionale di informare noi cittadini, e pretende di informarci mentre i fatti si svolgono, non soltanto dopo che i giudici li hanno accertati.
ASP