“Il corpo torturato e senza vita del mio collega Rubén Espinosa è stato trovato pochi giorni fa assieme a quello dell’attivista per i diritti umani Nadia Vera, e a quelli di altre tre donne. Se vuoi raccontare la verità in Messico, una delle prime democrazie dell’America Latina, oggi rischi la vita”.
Con queste dure parole inizia l’appello di Lydia Cacho, giornalista messicana ed attivista per i diritti umani indirizzato a Rodolfo Ríos Garza, procuratore generale di Città del Messico, a Ricardo Nájera, pubblico ministero per i crimini contro la libertà di espressione, e al presidente del Messico Enrique Peña Nieto.
I firmatari chiedono che vengano riviste urgentemente le procedure vigenti a tutela della vita dei giornalisti, e che venga preso un impegno immediato nel garantire e proteggere la libertà di espressione in Messico.
Oltre all’appello, 400 intellettuali, tra cui Noam Chomsky, Christiane Amanpour, Jon lee Anderson e Arianna Huffington, Martìn Caparros, Juan Cruz, Gustavo Gorriti, Margaret Atwood, hanno sottoscritto una lettera in cui denunciano la necessità di un’azione urgente da parte del Presidente del Veracruz Javier Duarte. Da quando si è insediato nel 2010, i giornalisti sono stati “perseguitati, minacciati e uccisi in un numero senza precedenti: 14 sono stati assassinati in modo atroce e tre sono scomparsi nello stesso periodo di tempo”.
Se si torna al 2000 i giornalisti uccisi in Messico diventano decine e sale a circa 20 il numero degli scomparsi. Altrettanto grave è che “la grande maggioranza di questi crimini non sia mai stata perseguita” e che la Commissione nazionale dei diritti umani messicana (Cndh) denunci “il coinvolgimento di funzionari pubblici” in molti dei crimini in questione.
Perché l’uccisione del fotografo Rubén Espinosa, 31 anni, ha sollevato la protesta attiva di intellettuali, giornalisti, artisti, sostenitori della libertà di espressione di tutto il mondo? La motivazione fa pensare tanto quanto il macabro numero dei giornalisti morti: Rubén Espinosa era fuggito dallo Stato del Veracruz verso Mexico city, l’unica città considerata sicura per i giornalisti. Dal 30 luglio 2015, giusto un mese fa, non è più così: neanche a Mexico city ci si salva se si fa informazione e se si denunciano i giri di droga messicani perché proprio a Mexico city è stato ucciso Rubén. Da un mese non esiste più nessun luogo dove alle minacce non segua la morte. A chi ha il coraggio di informare non è rimasta neanche la possibilità di fuggire.
Quanto accade in questi anni e in questi giorni in Messico non può che far ricordare quei terribili anni ’70 ed ’80 in cui in Italia decine di giornalisti sono stati uccisi dalla mafia e dai terroristi. Erano altri tempi e quegli anni li abbiamo superati ma non siamo riusciti ad arginare il problema delle minacce dirette, attraverso i social, tramite strumenti di legge divenuti “appositi” per intimidire: le querele temerarie. Finché nel nostro Paese i giornalisti continueranno a rischiare la vita per informare, quanto succede in Messico ci riguarda e merita, oltre ad essere diffuso, una riflessione: c’è ancora molto bisogno di agire, di andare oltre la solidarietà, di costruire e chiedere collettivamente ulteriori strumenti di protezione e garanzia. Così come in Messico non deve essere facile uccidere, in Italia non deve essere così facile minacciare e intimidire.
Una frase, tre le parole scritte dai 400 intellettuali per le stragi dei giornalisti messicani, sono quelle che più colpiscono: we urge you. Una collettività decide di agire e chiede con urgenza ad un individuo in particolare, di assumere un impegno rapido ed efficace per garantire e tutelare la libertà di informazione. Una relazione come quella da poco resa nota su informazione e mafia in Italia dovrebbe bastare a non limitarsi alla pure indispensabile propagazione della notizia. Oggi, nel nostro Paese, è necessario essere uniti, denunciare e pretendere, individuare il destinatario, fare proprie quelle tre semplici parole che, dall’altra parte dell’Oceano arrivano qui cariche di significato e di azione.