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Il rischio di un’informazione “di classe”

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“Un servizio pubblico che voglia definirsi tale non può indirizzare il suo messaggio a un’élite, ma ha al contrario il compito di raggiungere tutti gli spettatori, specialmente quelli più carenti di risorse economiche e culturali”. A parlare, anzi a scrivere, così è il neo-consigliere d’amministrazione della RAI Carlo Freccero, in un saggio dedicato alla televisione dal quale si traggono utili informazioni non solo per comprendere cosa è avvenuto nell’universo mediatico negli ultimi trent’anni ma anche, e soprattutto, per capire cosa è accaduto a livello politico in una fase storica segnata dal craxismo prima, dal berlusconismo poi e dal renzismo adesso.

Servizio pubblico: un’espressione desueta e senz’altro invisa ai cantori del liberismo d’assalto che, in alcuni casi, circondano l’attuale Premier; un residuato bellico di cui liberarsi quanto prima, magari approfittando del passaggio cruciale della prossima primavera, quando scadrà la concessione fra lo Stato e l’azienda, e privatizzandola, completando così il sogno mai celato di tutti i reaganiani e i thatcheriani alle vongole di casa nostra, sempre pronti a socializzare le eventuali perdite e a prendere per sé gli eventuali profitti.

Eppure è proprio di questo che il Paese avrebbe, oggi più che mai, bisogno: di un servizio pubblico autorevole e al passo coi tempi, moderno ma dotato di un’identità chiara e riconoscibile, con programmi di qualità e la dovuta attenzione alle fasce della popolazione più ignorate dai produttori televisivi, a cominciare dai bambini, cui un tempo era dedicata la programmazione pomeridiana mentre adesso c’è poco o nulla, se non qualche cartone animato non sempre di eccelsa qualità.

Perché il rischio (e per alcuni la speranza), inutile nasconderselo, è proprio che si consolidi un nuovo duopolio tutto di matrice privata: Sky da una parte e Mediaset dall’altra, Murdoch e Berlusconi, campioni delle televisioni a pagamento, dell’informazione appannaggio del ceto medio-alto e degli spettacoli sportivi riservati a chi non ha problemi ad arrivare alla fine del mese, tanto da potersi permettere un abbonamento di gran lunga superiore al costo mensile del canone RAI. E la RAI, per l’appunto? La RAI, in base ai desiderata dei soliti noti, potrebbe trasformarsi in una sorta di “maestro Manzi 2.0”: una noiosa serie di talk alla buona, che richiedono scarso lavoro autoriale e riescono, tutto sommato, a ripagarsi con la pubblicità, qualche serie più o meno valida, una spruzzata di filmetti d’importazione, ogni tanto qualche serata-evento e un varietà di privo di contenuti ma, a sua volta, in grado di ripagarsi grazie agli spot pubblicitari. E la cultura? Non pervenuta. E il contributo alla crescita sociale e valoriale del Paese? Inesistente. E l’illuminazione delle periferie dello sconforto e del disagio? Del tutto assente. E le grandi inchieste, il racconto della contemporaneità attraverso reportage di alto livello, la comprensione storica dei fenomeni e lo sviluppo di un pensiero critico in grado di trasformare le persone in cittadini, integrando così il lavoro svolto dalla scuola? Non scherziamo!

Non a caso, sono almeno vent’anni, se non di più, che quasi tutti i governi stanno tentando di distruggere la scuola e di annientare, parallelamente, la RAI: meno cultura, meno conoscenza, una cittadinanza imbonita dal circo dei venditori di pentole, che siano esponenti politici o presentatori televisivi non conta, e la progressiva scomparsa dei concetti di Stato, di comunità, di pubblico, di solidarietà e di sapere dall’orizzonte del dibattito quotidiano.

Un programma raffinato e pericolosissimo di arretramento su più fronti che sta conducendo il nostro Paese ad un drammatico analfabetismo di ritorno, con un numero di diplomati e laureati assolutamente insufficiente a far fronte alle sfide della modernità; il che rischia di trasformare l’Italia da nazione culla della cultura e delle umane lettere in serbatoio di manodopera dequalificata a basso costo, in un esercito di riserva cui attingere all’occorrenza, possibilmente dopo aver messo da parte e reso innocui anche i sindacati, al fine di evitare che qualcuno possa azzardarsi ad alzare la voce in favore degli ultimi, degli sfruttati e dei deboli.

Sarà che sono irrimediabilmente “gufo”, un po’ “rosicone” e tendenzialmente “disfattista”; sarà che a me questo blairismo d’accatto e questo liberismo fuori luogo e fuori tempo massimo non m’hanno mai convinto; sarà che credo ancora nel modello del welfare state europeo; sarà che ho a cuore la Costituzione più bella del mondo, in cui lavoro, scuola, cultura e conoscenza sono capisaldi imprescindibili; saranno tutti questi fattori insieme, fatto sta che comincio a vedere, non da oggi, un disegno ben preciso dietro il percorso “riformista” in atto e questo disegno mi dà tanto l’idea che presto ci troveremo a vivere in una società più povera, meno libera, più ignorante, con molti meno strumenti a disposizione per capire e per difendersi, dunque con una classe politica ancora peggiore di quella attuale e una ripresa economica che semplicemente non ci sarà, non potrà esserci, perché non avremo gli strumenti intellettuali né le possibilità materiali di perseguirla.

Come vedete, da quest’informazione “di classe” che va configurandosi, in cui al censo corrisponde anche l’accesso al sapere, come se fossimo tornati ai tempi dei “cafoni” di Di Vittorio, i quali dovevano solo obbedire e tacere, da questo modello di non sviluppo e di regresso collettivo discendono conseguenze che dovrebbero far tremare le vene ai polsi, in quanto ne deriva una Penisola allo sbando in mezzo al Mediterraneo, sempre più euroscettica, sempre più razzista, sempre più terrorizzata e, infine, in guerra con se stessa e incapace di ascoltare le ragioni dell’altro, lasciando campo aperto ai costruttori di muri (e occhio che quelli immaginari, talvolta, sono persino più alti e più spessi di quello che vorrebbe costruire Orbán in Ungheria) e ai seminatori d’odio e pregiudizio, contro i quali le uniche voci che finora hanno avuto il coraggio di levarsi con la dovuta nettezza sono state quelle di papa Francesco e dei vescovi a lui vicini.

Un’informazione di classe, dicevamo, preludio della scomparsa di quell’“ascensore sociale”, come si chiamava un tempo, che consentiva anche all’operaio di avere il figlio dottore: era l’Italia del boom, dell’attenuazione delle ingiustizie, dell’uscita dall’ignoranza e dal silenzio di chi fino a quel momento era stato considerato alla stregua di un oggetto e d’improvviso si batteva per i propri diritti; era l’Italia dello Statuto dei lavoratori, dell’introduzione dell’aborto e del divorzio, della generazione critica e contestatrice, dei partiti che avevano ancora un senso e una ragione di esistere. Era un’Italia in cui il servizio pubblico, orgoglioso di essere tale, era forse il migliore d’Europa, al pari della nostra scuola e della nostra legislazione sociale; era un’Italia in cui ancora non era entrato in azione il Venerabile con il suo Piano di rinascita democratica che nel passaggio dedicato all’informazione recitava: “Nei confronti della stampa (o, meglio, dei giornalisti) l’impiego degli strumenti finanziari non può, in questa fase, essere previsto nominatim. Occorrerà redigere un elenco di almeno 2 o 3 elementi, per ciascun quotidiano o periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro. L’azione dovrà essere condotta a macchia d’olio, o, meglio, a catena, da non più di 3 o 4 elementi che conoscono l’ambiente. Ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di <<simpatizzare>> per gli esponenti politici sopra prescelti […]. In un secondo tempo occorrerà: a) acquisire alcuni settimanali di battaglia; b) coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso una agenzia centralizzata; c) coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale; d) dissolvere la RAI in nome della libertà di antenna”. In poche parole, una forma di fascismo moderno.

Pur non stimando Renzi, confidiamo nel suo sincero spirito democratico, nella sua rivendicata cultura liberale e nella bontà dei suoi propositi, anche se spesso non coincidono con i nostri: speriamo di non dover mai cambiare idea.


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