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Sette detenuti suicidi in un mese. Più di uno ogni cinque giorni

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È successo qui da noi, in Italia.  È successo nelle carceri di Roma Regina Coeli, Terni, Teramo, Pisa, Alba e Carinola e Gela in quelle prigioni italiane prima condannate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo per trattamenti inumani e degradanti e poi promosse perché si è ritenuto che le condizioni fossero migliorate.
È successo mentre i media illuminavano la periferia rimasta buia per troppo tempo dei tanti percorsi via terra dei migranti, le periferie di chi vive vite non degne di questo nome, la periferia della disperazione che ti porta a sfidare la morte pur di vivere, le periferie greche di un’Europa ancora da costruire.
È successo. Nel silenzio e nell’indifferenza dei più, mentre il mondo libero era troppo preso da altro per ricordarsi che in Italia i detenuti sono in carcere non per marcirci dentro o peggio per morirci, ma per “rieducarsi” e tornare a una vita libera. Almeno secondo la Costituzione italiana.
È successo mentre sono in corso gli Stati generali delle carceri promossi dal Ministero della Giustizia, quel ministero che per strada non a caso ha perso la parola Grazia anche dal suo nome.
È successo in un paese che ancora non riesce a trovare posto per gli internati negli OPG, gli ospedali psichiatrici giudiziari, che per legge dovrebbero essere chiusi da tempo.
È successo.

Sette persone affidate alla giustizia sono morte suicide dietro le sbarre nell’ultimo mese. Più di una ogni cinque giorni. Trentuno dall’inizio dell’anno, sempre più giovani e stranieri e – come sempre – sono morti con un cappio al collo o asfissiati con il gas delle bombolette per cucinare.


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