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Uno spot da museo

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La recente nomina dei direttori dei musei statali, con sette prescelti non italiani su venti, ha avuto un’eco prevedibile, come prevedibile è stato il dibattito che ne è seguito. In sintesi, si possono ricordare -tra gli altri- i commenti puntuali di Tomaso Montanari sul suo blog (bene gli stranieri, ma le specializzazioni sono quelle giuste?) e l’analisi svolta da Salvatore Settis su la Repubblica dello scorso 19 agosto. Quest’ultima riflessione ci pone un problema assai serio. i neodirettori hanno davanti una “missione impossibile”: rinnovare un sistema sclerotizzato; far fronte ai tagli del 2008 dell’era Berlusconi-Tremonti, mai recuperati. Insomma, è come se per risanare un edificio cadente si partisse dall’attico. Non dalle fondamenta. L’ultimo rapporto annuale di Federculture sottolinea come l’Italia sia arrivata al livello più basso di investimento dello stato nella cultura dal dopoguerra.

Oggi è pari a 1,5 miliardi di euro (lo 0,19% del bilancio dello stato e lo 0,13% del Pil), mentre meno di vent’anni fa (1998) era l’equivalente di 2,8 miliardi di euro, lo 0,25% del Pil. E così le regioni e gli enti locali, a causa innanzitutto dei mancati trasferimenti da parte dell’amministrazione centrale. Viceversa, domanda e consumi sono aumentati (nei comuni del 37% dal 2008 al 2014). La stessa riforma del ministero è incompiuta per l’annoso blocco delle assunzioni, mentre la legge Madia –una delle misure chiave della fase recente- ha sottoposto le soprintendenze alle prefetture. Flash back. Non è tempo di superdirettori e di supereroi. Servirebbe un riformismo tenace, magari un po’ banale e meno “spottistico”. Ci sarà modo di tracciare bilanci non improvvisati e ci si attende qualche novità anche per la miriade di musei disseminati sul territorio, tantissimi e spesso né tutelati né valorizzati.

Una visione? Sono molto stimolanti le riflessioni sui luoghi museali della semiologa Isabella Pezzini (2011), che mette in luce come non si tratti di istituzioni del passato, bensì una forma della modernità: un’icona metropolitana. Come è evidente nel Beaubourg di Piano e Rogers fino al Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry, comprendendo pure la numerosa nomenclatura meno nota, che intrecciano e contaminano linguaggi diversi: artistico, pedagogico, dei consumi, del marketing e dello spettacolo. Sempre la stessa autrice (2007) ci parla delle scene del consumo: dallo shopping al museo. Non si comprenderebbe, altrimenti, il motivo per cui la presenza di massa sia aumentata, ribadendo la funzione economica anticiclica della cultura. Ecco il punto. Investire nelle attività artistiche (in senso lato) è decisivo proprio nei periodi di crisi. Roosevelt utilizzò la radio per il New Deal. A quando, almeno, la trasformazione di una rete generalista della Rai in un canale culturale non stop senza pubblicità? Non è neanche vero, poi, che i tagli si siano fermati.

E’ di queste settimane la notizia di una revisione dei finanziamenti delle attività dello spettacolo dal vivo (che dizione orrenda), a danno di molteplici esperienze musicali e teatrali. Sono state depositate interrogazioni parlamentari, la discussione si è accesa. Come si vede, la coperta cortissima del Fondo Unico dello Spettacolo fa acqua ed è indegno assistere silenti ad una lotta tra poveri, a morti e feriti. Ecco perché suscita qualche imbarazzo il coro da stadio che ha accompagnato la scelta dei superdirettori. E se è solo maquillage? E’ che servirebbe una superpolitica della e nella cultura. Il resto è propaganda o  cattiva promessa.

Fonte: “Il Manifesto”


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