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A Cuba torna la bandiera americana: 'Dateci Internet e avremo la libertà'

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Camminare di notte lungo La Rampa, il viale che scende dalla gelateria Coppelia al lungomare Malecon dell’Avana, ricorda l’Africa. Gibuti, per la precisione, nell’immagine con cui John Stanmeyer aveva vinto l’anno scorso il premio World Press Photo. Quello scatto mostrava alcuni migranti sulla spiaggia, che alzavano i loro telefonini illuminati nel buio.

speravano di cogliere un flebile segnale per parlare con le famiglie lasciate chissà dove. Allo stesso modo, da qualche settimana, ogni notte La Rampa si riempie di cubani che alzano i loro cellulari, tablet, computer, per catturare la debole connessione wi-fi che può finalmente collegarli al mondo. Un Paese al bivio, dove si comincia a sognare la svolta.
La censura 

Per anni il regime ha censurato e limitato l’accesso a Internet, al punto che secondo uno studio dell’Onu l’isola è al 125esimo posto su 166 Paesi in termini di funzionalità delle telecomunicazioni. Solo il 5% dei suoi 11 milioni di abitanti riesce a entrare nella Rete. Ora però il governo ha iniziato a cedere alla pressione della gente, impegnandosi a collegare almeno il 50% dei cubani entro il 2020. È partito con una novità che la blogger Yoani Sánchez ha salutato sul sito 14YMedio come «un primo passo importante», cioè l’apertura di 35 hotspot dove le persone possono accedere a Internet. Cinque sono a L’Avana, ma il più popolare e simbolico è quello della Rampa. Giovani e adulti comprano carte che per tre pesos consentono un’ora di collegamento, e poi si accalcano sui muretti del viale per inseguire i loro sogni. Vengono attrezzatissimi, con computer, tablet, cellulari, cuffiette, e persino faretti per illuminare i propri volti, come farebbe una troupe televisiva.

Mi fermo a parlare con Raul, un trentenne che sta smanettando col suo smartphone, mentre la moglie Rosa gli tiene la luce puntata in faccia: «Sì – ammette senza reticenza – la persona che sto chiamando è un amico negli Stati Uniti. Finalmente ci possiamo parlare e vedere ogni giorno, senza problemi». Come se tutte le sere, per sentire vostro cugino a Ginevra, foste costretti a scendere in Piazza Castello, o Piazza del Popolo, e tenere conversazioni private davanti a migliaia di persone che fanno altrettanto. Raul mi legge in faccia lo scetticismo, e sorride: «Da dove vieni tu? New York? Ecco, immagina se tornando a casa scopristi che il cellulare non funziona più, e il computer non scarica neppure le mail: diventeresti matto, no? Bene, questa finora è stata la nostra condizione di vita normale. Capisci così perché venire sulla Rampa a chiamare Miami è progresso. Sembriamo dei poveracci, lo so, però sono tutti piccoli passi che portano nella direzione giusta. Come la visita del segretario di Stato americano Kerry, che significa la fine di una lotta assurda con cui per mezzo secolo siamo stati paralizzati. È la speranza di una vita normale che torna».
A settembre il Papa 

Così Cuba aspetta l’alzabandiera che Kerry farà stamattina nell’ambasciata americana sul Malecon, riaperta il 20 luglio scorso dopo 54 anni. L’ultima volta che un segretario di Stato ha visitato l’isola risale al 1945, grosso modo quando Lucky Luciano riuniva i boss mafiosi all’Hotel Nacional. Da allora in poi solo rivoluzione, invasione alla Baia dei Porci, crisi dei missili, Guerra fredda, embargo. Ora si riparte. A settembre poi arriverà Papa Francesco, che aveva ospitato in Vaticano i colloqui segreti fra Washington e L’Avana, aiutando a sbloccarli. Due eventi storici ravvicinati, che dimostrano come Cuba possa cambiare.
Lo scetticismo di Fidel 

Fonti molto informate, a diretto contatto con le leadership di tutti i Paesi coinvolti, rivelano che Fidel Castro era davvero scettico sul dialogo: l’embargo americano, in fondo, era la scusa che giustificava la presa ferrea del regime, e in molti casi la repressione (e infatti ieri ha attaccato di nuovo gli Usa). Raul però ha voluto andare avanti, e il fratello gli ha concesso spazio, perché si rende conto che così non è facile proseguire. I cubani mangiano ancora con i generi alimentari razionati, e lungo la Rampa, oltre alle carte per la connessione Internet, si offrono graziose insegnanti di educazione fisica come Yusen, che però «se trovo un uomo gentile disposto ad aiutarmi…». La prostituzione naturalmente non è un’esclusiva di Cuba, ma vedere la rivoluzione trasformata in meta del turismo sessuale fa pensare che qualcosa non ha funzionato bene.

Le fonti dicono che Kerry viene a preparare il viaggio del presidente Obama: vorrebbe visitare Cuba all’inizio dell’anno prossimo, prima che la campagna elettorale per sostituirlo entri nel vivo. Del resto anche i duri di Miami, tipo quelli del braccio di ferro per il bambino Elian Gonzalez, cominciano a pensare che forse la ripresa delle relazioni promette più dell’embargo. Il Papa, invece, verrà a ripetere quanto aveva già detto in Bolivia: non tutti i valori delle rivoluzioni sono da buttare, a patto però di dare alla gente la libertà di scegliere.

Va bene la sanità o l’istruzione gratuita, insomma, ma non la repressione dei diritti umani o il sistema giudiziario che dipende dal regime. Il viatico per la transizione pacifica, che non richieda la controrivoluzione violenta. Due potrebbero essere le strade. La preferita, ma anche la più improbabile, sarebbe l’accettazione da parte del regime di proposte costituzionali, come quella che aveva avanzato Oswaldo Payá col Progetto Varela, o quella nuova di «Cuba Possibile», che darebbero la parola alla popolazione con un voto libero, tenuto nel rispetto delle leggi esistenti. La seconda è la speranza che nello stesso regime esista un’opposizione per ora silenziosa, perché minoritaria, ma pronta a gestire la transizione se si creasse l’opportunità. Grosso modo quello che aveva fatto Gorbaciov nell’Urss, magari senza scivolare poi nel putinismo. Raul Castro del resto ha annunciato che lascerà nel 2018, e per quanto la data sia lontana, qualcosa nel frattempo dovrà accadere.

 

I dissidenti 

Kerry oggi pomeriggio incontrerà alcuni oppositori, al ricevimento nella residenza dell’inviato americano, e l’altro giorno durante una conference call di background con i giornalisti un alto funzionario del dipartimento di Stato ha assicurato: «Voglio essere chiaro: nulla negli eventi di venerdì muterà il nostro sostegno per i dissidenti, gli attori politici, gli attivisti dei diritti umani, i media indipendenti. Nulla è cambiato a riguardo e nulla cambierà. Staremo sempre dalla parte degli attivisti politici pacifici, che cercano aperture, spazio e diritti umani. Proprio come abbiamo denunciato le azioni di domenica», quando una novantina di oppositori che marciavano a L’Avana con le Damas de Blanco sono stati arrestati. «Io – mi dice Elizardo Sánchez, capo della Comisión Cubana de Derechos Humanos y Reconciliation National – sono scettico: solo a luglio, sono stati detenuti 674 dissidenti. Il dialogo con gli Usa è un’operazione di potere, non avrà impatto sulla vita dei cubani, i diritti umani, la libertà economica e sociale». Sulla Rampa, però, Raul chiede alla moglie Rosa di alzare in fretta la luce: la chiamata per Miami è partita. (La Stampa)

Da sanfrancesco
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