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Riforma Rai, da un metodo sbagliato non potranno che derivare altri errori

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Chiunque non sia accecato dai fumi della propaganda e del settarismo, sa bene che il testo approvato dal Senato non ha nessun rapporto di parentela con qualcosa che possa assomigliare alla Riforma della Rai. La legge Gasparri, a suo tempo duramente contrastata dal centro sinistra, senza eccezione alcuna, prevedeva il controllo diretto di governo e partiti sul servizio pubblico. Il nuovo testo prevede la stessa cosa ed aggiunge un super direttore generale espresso dal governo e dunque un suo “fiduciario”.

Il governo medesimo, Renzi in testa, sa queste cose, ed infatti questa non riforma finirà sul binario morto, si fermerà alla Camera e sarà riscritta senza fretta, perché, nel frattempo, ricorrendo alla legge Gasparri, sarà eletto il nuovo gruppo dirigente. Sarà eletto senza aver definito il mandato editoriale ed industriale e senza aver indicato quali e quante risorse saranno destinate alla Rai.

In questi giorni il dibattito  ha assunto i contorni di una delle tante puntate del congresso del Pd, della ventennale trattativa con Berlusconi, delle tensioni con le opposizioni grilline e leghiste.

Quello che è mancato e manca, è una discussione aperta sui nodi irrisolti che continuano a condizionare la Rai ed il sistema mediatico nazionale.
Il programma del PD, sulla base del quale sono stati eletti i gruppi parlamentari, prevedeva la risoluzione del conflitto di interessi, nuove norme antitrust, l’adeguamento al quadro europeo, l’istituzione di una fondazione capace di distanziare la Rai da governi e forze politiche. Una posizione, per altro condivisa, almeno in parte, anche dal Movimento 5 Stelle, da Sel e da non pochi parlamentari di Scelta Civica e del gruppo misto.

Questa possibile convergenza non è stata neppure esplorata, perché avrebbe rappresentato un ostacolo insormontabile sulla strada del dialogo con l’ex cavaliere su riforme costituzionali e legge elettorale, secondo un ventennale e collaudato copione.

La legge sul conflitto di interessi viene citata solo quando si tratta di far finta di minacciare Berlusconi, quando invece servirebbe una moderna legge capace di prevenire e neutralizzare non il solo conflitto dell’ex cavaliere, ma i tanti che inquinano e condizionano il  sistema industriale e politico.
Allo stesso modo servirebbe una riscrittura della legge Gasparri, a partire da quel sistema integrato delle comunicazioni che ha sostanzialmente aggirato i tetti antitrust, confermano e rafforzando le posizioni dominanti.

In questo contesto sarebbe indispensabile una discussione seria e trasparente sul servizio pubblico. Discussione che anche questo governo aveva positivamente avviato, promuovendo gruppi di lavoro composti da personalità autorevoli della ricerca, della Università, delle comunicazioni. Quei gruppi avevano prodotto materiali interessanti, delineato lo scenario internazionale, indicato le vie dell’innovazione e della convergenza, disegnati i possibili assetti editoriali ed industriali e soprattutto avevano suggerito la strada della netta separazione tra compiti di indirizzo e attività di gestione dell’azienda pubblica. Quei gruppi erano stati scelti da questo governo e dunque non erano neppure sospettabili di un pregiudizio politico.

Per quale ragione questa strada è stata abbandonata?
Che fine ha fatto la pubblica consultazione prima annunciata e poi negata?
Perché dopo le elezioni regionali si è scelta la via breve del ritorno alla Gasparri?

Chi pensa che la crisi attuale sia soprattutto il frutto di una “cattiva comunicazione” compie un antico errore e rischia di trascinare nel baratro anche il presidente del Consiglio ed il suo governo.

I pifferai di queste ore, quelli che applaudono sempre e comunque, saranno i primi a sbarcare alle prime onde. Il ritorno alla legge Gasparri rappresenta una sconfitta tattica e strategica che non potrà essere compensata neppure individuando questo o quel nome di prestigio. Da un metodo sbagliato non potranno che derivare altri errori.

Meglio sarebbe stato fermarsi, prendere tempo, e percorrere la strada già individuata, quella che andava davvero verso la BBC e presupponeva una definizione preventiva della missione editoriale, industriale e finanziaria della Rai. Per altro il medesimo PD ha nei suoi cassetti le proposte presentate a suo tempo dell’attuale ministro Paolo Gentiloni e da Walter Veltroni e che già andavano in quella direzione.

Quale mandato avrà il nuovo Consiglio?
La Rai dovrà essere più o meno autonoma da governi, partiti, logge, gruppi di interesse?
Dovrà “illuminare le periferie” o rinchiudersi dentro il teatrino nazionale?
Saprà valorizzare le tante risorse interne, editoriali, tecniche, amministrative o diventerà terra di conquista per appaltatori e messe figure da riciclare?
Entreranno in azione i “tagliatori di teste” o finalmente ci saranno i “cacciatori di teste” preoccupati di scovare nuovi talenti?
Ed ancora, la Rai sarà ancora il punto di riferimento per tanta parte della industria culturale e dell’audiovisivo nazionale?

Qualche mese fa il presidente Renzi aveva lanciato una sfida ad individuare i nuovi maestri Manzi del domani, cioè coloro, che come il mitico maestro delle origini della tv, sarebbero stati capaci di fornire i nuovi vocaboli, di alfabetizzare tutti noi ai linguaggi della coesione, della integrazione sociale, della accoglienza… Quella sfida ci era apparsa intrigante, degna di essere raccolta, davvero all’altezza di un dibattito finalmente svincolato da vecchie logiche di parte, partito, appartenenza.
Il ritorno alla legge Gasparri rappresenta invece un deragliamento da questo percorso.

Dal momento che abbiamo contrastato quella legge e non ci siamo affatto pentiti di averlo fatto non abbiamo ragione alcuna di cambiare opinione oggi. Se e quando qualcuno vorrà riprendere una discussione di merito sulla Rai e sulla riforma del sistema non mancheremo di dare il nostro apporto, perché questi temi non riguardano solo il destino di una delle più grandi aziende del paese, ma anche i diritti costituzionali di ciascun cittadino e, tra questi, il diritto ad essere correttamente informato per poter esercitare in modo consapevole il libero esercizio del diritto di voto.


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