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Il delitto di Mauro Rostagno è stato un omicidio mafioso

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La Corte di Assise di Trapani lo ha spiegato in oltre 3 mila pagine di motivazioni a sostegno della condanna all’ergastolo pronunciata contro i mafiosi Vincenzo Virga e Vito Mazzara. Rostagno fu ucciso nel 1988, ma ancora oggi restano in giro i “lupi” che lo azzannarono e contro Cosa nostra manca il coro che il sociologo sapientemente stava riuscendo a far nascere. Tutto cambia, per non cambiare nulla.

A pagina 2983 del volume che raccoglie in 3035 pagine le motivazioni della condanna all’ergastolo, per l’omicidio del sociologo e giornalista Mauro Rostagno, ammazzato il 26 settembre del 1988, dei mafiosi Vincenzo Virga, capo della cupola mafiosa trapanese per vent’anni, e Vito Mazzara super killer fidato di Cosa nostra trapanese, il primo che aveva come suo emulo il boss Bernardo Provenzano, il secondo che andava a sparare, nel senso ammazzare la gente, con Matteo Messina Denaro, si legge già al primo rigo qualcosa che probabilmente suonerà strano se letto da chi sta lontano dalla Sicilia e da Trapani, da chi può non avere seguito gli oltre tre anni di processi, per non parlare delle travagliata istruttoria investigativa. Precisamente si legge: L’indagine sul movente dell’omicidio di Mauro ROSTAGNO, che ha impegnato larga parte dell’istruzione dibattimentale, ha consentito di misurare tutta l’inconsistenza delle piste alternative a quella mafiosa, che pure sono state esplorate, senza preconcetti, e dando il p iù ampio spazio alle istanze e agli impulsi delle parti interessate a coltivarle. Di contro, a partire proprio da una ricognizione dei contenuti salienti del lavoro giornalistico della vittima, di talune sue inchieste in particolare, ma del suo stesso modo di concepire e soprattutto di praticare il giornalismo e I’informazione come terreno di elezione di una ritrovata passione per l’impegno civile, profuso anzitutto nel contrasto al fenomeno della droga, nel solco dell’equazione lotta alla droga uguale lotta alla mafia, è emerso come Cosa Nostra avesse più di un motivo, e uno più valido dell’altro, dal suo punto di vista, per volere la morte di ROSTAGNO.

Insomma è stata la mafia ad uccidere Rostagno. Direte. E perché tanto clamore? Direte sempre voi, non lo sapevate che era stata la mafia, già , direte ancora, lo si capiva dallo scenario del delitto, l’agguato in zona isolata e buia, la lupara, e poi dalle chiacchiere del dopo, il mascariamento della vittima, uccisa per droga, sesso, traffici strani, il tam tam sulla “questione di corna”. Si, rispondiamo, lo sapevamo, ma ci sono voluti a momenti quasi trent’anni per attestare ciò che tutti sapevano già dalla sera del 26 settembre del 1988, perché la firma della mafia era davanti agli occhi di tutti. E oggi titoliamo dicendo che è stata la mafia ad uccidere Mauro Rostagno perché durante il processo, anche organi di informazione, anche giornalisti, tra i pochi che hanno seguito il dibattimento, pur dinanzi all’evidenziarsi delle prove contro gli imputati e la mafia, come quella genetica del Dna che ha incastrato il killer Vito Mazzara, hanno scritto, e titolato, che col delitto non c’entrava la mafia. Ora, non escludendo che qualcuno sosteneva questo magari per compiacersi meglio con qualche avvocato della difesa, ma in generale la loro convinzione  non era un escludere la responsabilità mafiosa, ma il volere chiamare in causa altre entità nel delitto, servizi segreti deviati o no, massoneria, poteri occulti, intelligence internazionale. Scenari puressi delicati e che possono armare le mani di killer, ma nel processo per il delitto Rostagno è entrata con vigore la prova di una mafia che non ne poteva più di quel giornalista.

A distanza di oltre 25 anni dal delitto il famoso tam tam lanciato un giorno d’autunno del 1988 dal boss mafioso Mariano Agate durante un summit mafioso e cioè che Rostagno era stato ucciso per questione di corna, è entrato nell’aula della Corte di Assise: impossibile dimenticare l’interrogatorio cui fu sottoposta la compagna di Rostagno, Chicca Roveri, dalla difesa del killer Mazzara, quasi fosse dovuta essere lei l’imputata in quel processo! Leggete la sentenza da queste pagine in poi. Il capitolo si chiama “Epilogo”. I giudici, il presidente Angelo Pellino, il giudice a latere Samuele Corso, sgombrano il campo dalle ombre artificiosamente costruite, ancora durante lo stesso processo, ragionano sul lavoro di Mauro Rostagno, toccano uno ad uno gli argomenti da lui affrontati e li sovrappongono a ciò che tanti processi,m tante indagini hanno provato sulla trasformazione della mafia trapanese. Mauro Rostagno, scrivono i giudici, aveva colto nel segno ciò che rappresentava il delitto del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, il colpo che la mafia aveva subito vedendo portati alla sbarra boss del calibro di Nitto Santapaola e Mariano Agate, cosa era stato realizzato per mettere nuovamente ogni cosa al suo posto, cioè liberare e i mafiosi per tornare a far fare loro i capi della cupola.

Per questa ragione la cronaca di quel processo fatta da Rostagno per il delitto Lipari contro Agate e Santapaola dava fastidio, e Mariano Agate mandò a dirgli che “la doveva finire di dire minchiate” (ovviamente non così in italiano perfetto, ma col dialetto siciliano che in certi casi sa essere efficace e virulento). Stesso tenero e stesso messaggio che a Rostagno fu mandato da un colletto bianco, da un impiegato di banca, tale Ignazio Placenza, solo che poi la cosa a chi la sapeva è caduta di mente, scomparsa, salvo ricordarsene 20 e passa anni dopo. Quell’impiegato di banca, suocero di mafioso, un giorno fece sapere che Rostagno stava rischiando troppo per quello che diceva, viene quasi da dire che lo disse da “persona informata dei fatti”. E con questa profondità visiva che gli veniva dal possesso degli strumenti e delle attitudini di studioso egli stava approfondendo una sua personale ricerca dei retroscena dei più eclatanti delitti che avevano insanguinato la provincia trapanese negli ultimi anni, nella convinzione che vi fosse un filo che li legava gli uni agli altri, rimontando indietro fino alla strage di via Carini, all’omicidio del prefetto Carlo Alberto DALLA CHIESA, intravedendo nell’omicidio LIPARI un delitto di rilevanza strategica, rivelatore di una competizione in atto con una nuova mafia che contendeva con crescente successo alla vecchia guardia l’egemonia”. Il corsivo appartiene alla sentenza, e il corsivo è di mafia che parla. La mafia che ha ammazzato il generale Dalla Chiesa, che ha fatto le stragi, che ha armato le guerre di mafia, che ha trafficato droga e armi, riempito la Sicilia di raffinerie di droga, costruito intere città, cementificato tutto quello che era possibile cementificare (con regolare cemento depotenziato), che è diventata impresa, che è arrivata in Borsa e oggi ha i suoi soldi nelle city finanziarie che contano. E’ la mafia che da sola rappresenta tutto il peggio che la società civile può conoscere e non ha bisogno che altro si affianchi. Durante il processo è spesso echeggiata, a difesa degli imputati (sic) una frase pronunciata a inizio processo dal pm Antonio Ingroia, “a uccidere Rostagno è stata la mafia ma non solo la mafia”. Il processo ha dimostrato che la mafia da sola rappresenta tutto, ha dentro di se tutto, la politica corrotta, i banchieri che garantiscono il riciclaggio, i servizi segreti che fanno il doppio gioco, o anche forse fanno il giusto gioco, come far prendere i latitanti quando è ora, ci sono i trafficanti di armi e di droga, i venditori dei seggi, la massoneria. Gladio per esempio a cosa serviva? E poi a cosa serviva a Trapani. I giudici attestano che quella è la prova lampante di come certe istituzioni vengono distorte, destinate ad altro, a mettere in contatto nel caso della Gladio Trapanese servizi segreti e organizzazioni criminali.

Alleate perché operazioni super segrete restassero tali. Se Rostagno aveva scoperto un segretissimo scambio di armi sotto la pancia di un Hercules fermo sulla pista dell’aeroporto abbandonato di Kinisia, per via di quel “patto segreto” la mafia avrebbe avuto ancora di più il compito di ammazzarlo. I giudici spiegano così questo passaggio: “ROSTAGNO poteva essere una minaccia, dopo che aveva scoperto gli strani traffici che avvenivano a ridosso della pista di un vecchio aeroporto militare ufficialmente in disuso alle porte di Trapani. Ma sotto altro profilo, è ancora più probabile che quei sordidi legami, per quanto non direttamente afferenti al movente del delitto, abbiano avuto l’effetto di incoraggiare i vertici dell’organizzazione mafiosa ad agire, nella ragionevole convinzione di poter contare, una volta commesso il delitto, su una rete di protezioni e connivenze pronta a scattare in caso di necessità: come alcune sconcertanti emergenze di questo processo fanno paventare sia accaduto”. Più che le armi poterono invece le connessioni tra mafia, politica, corruzione e massoneria e i santuari del malaffare ogni giorno a Trapani si andavano scoprendo. I politici che finivano inquisiti venivano ben illustrati da Rostagno in tv, alcuni sono uomini che ancora oggi siedono nei palazzi della politica. Sono ancora i giudici della Corte di Assise a parlare: Ma una minaccia (Rostagno ndr) lo era già su un altro versante: quello della lotta al malaffare e alle collusioni politico-mafiose di cui si nutriva. Il suo costante impegno di denunzia su tale versante andava oltre il lavoro già importante di controinformazione e di sensibilizzazione dell’opinione pubblica sui temi della legalità e delle dignità delle istituzioni e dei cittadini. Esso si traduceva in una feconda sinergia con l’azione di contrasto messa in atto da una parte della magistratura e delle forze dell’ordine e nell’apporto che allo sviluppo delle indagini di polizia giudiziaria potevano venire dalla sua capacità di procurarsi informazioni attraverso fonti che magistrati e poliziotti non avrebbero potuto avvicinare (anche se lui per primo respinge il sospetto che i suoi servizi si alimentassero di contributi talpeschi); e comunque di svolgere autonome inchieste giornalistiche che miravano a varcare la soglia di autentici santuari del potere locale come era all’epoca la rete di circuiti massonici che faceva capo al Centro Studi “Antonio SCONTRINO” a Trapani”.

Si sono trovati suoi appunti sull’organigramma mafioso trapanese, ritagli di giornale sugli affari di Cosa nostra, elenchi di nomi che a Rostagno dicevano già qualcosa e che negli atti giudiziari ci sono finiti anche 20 anni dopo il delitto, Rostagno aveva capito più di altri, o dava forma a quello che era sotto gli occhi di tutti ma che non tutti dicevano, anche tra i giornalisti dell’epoca. Quando Rostagno guidava negli anni ’70 il gruppo di Lotta Cotninua a Palermo, un giorno prese e posò sul tavolo durante una riunione, gli atti della commissione nazionale antimafia. Qualche giorno dopo chiese a chi li aveva letti se aveva capito da chi si doveva cominciare a dar battaglia, non ebbe risposta, allora disse, è dell’avvocato Vito Guarrasi che vi parlo. Un nome che oggi emerge in quasi tutti i misteri siciliani, morto da persona innocente, custode oramai silenzioso di tanti segreti. Dava fastidio (Rostagno ndr), tanto da essere una vera camurria nella valutazione per i più avvertiti capi della organizzazione mafiosa, il suo sforzo di ridisegnare la mappa degli organigrammi del potere mafioso e di individuare le figure emergenti che potevano avere preso il posto degli esponenti della vecchia guardia di Cosa Nostra, decimati da arresti ma ancora di più dai colpi messi a segno dalle cosche antagoniste che nuovo slancio traevano dalla loro capacità di inserirsi nella gestione del narcotraffico o in altre redditizie attività. Dava fastidio la sua attenzione per la gestione degli appalti pubblici; ed anche qui il timore piu che fondato era che da quel suo modo di fare giomalismo, inusitato all’epoca e in quel contesto territoriale, potessero partire precisi imput a inchieste giudiziarie esiziali per la prosperità e la sicurezza degli affari perché avrebbero fatto luce su un sistema che proprio in quegli anni, sotto la regia di professionisti come Angelo SIINO (il ministro dei lavori pubblici di Totò Riina ndr) e poi Ciccio PACE (che nel 2001 divenne indiscusso capo della mafia trapanese succedendo a Virga perché nel frattempo arrestato ndr), stava prendendo corpo”. Omicidio e depistaggio. La Corte di Assise pur in assenza ancora di una previsione di reato così detta, depistaggio, ha voluto a chiare lettere dire che gli errori investigativi non sono stati solo errori: La rimozione ingiustificata – poiché era già morto – del corpo della vittima è stato solo il primo di una filiera inenarrabile di inammissibili alterazioni della scena del crimine, colpevoli ritardi ed inspiegabili omissioni, soppressioni o dispersioni di reperti, manipolazione delle prove e reiterati atti di oggettivo depistaggio che non sembrano trovare spiegazione solo in una clamorosa inadeguatezza del personale operante o in una cronica mancanza di professionalità. I tanti, e ancora attuali, fili che s’intrecciano sullo sfondo delle ragioni per cui fu infranto il sogno che il sociologo torinese coltivava di poter invecchiare in Sicilia, spiegano a loro volta la sconcertante sequela di false testimonianze e Ie tante reticenze riscontrate nelle deposizione dei testi qui escussi”.

Anche nel delitto Rostagno come in tutti i delitti eccellenti della mafia, manca qualcosa (il collega Salvo Palazzolo ha scritto un libro sui Pezzi Mancanti). Si pensava che all’appello mancasse la famosa cassetta con su scritto non toccare che Rostagno teneva sulla sua scrivania a Rtc. La Corte di Assise ha scoperto che non manca solo una cosa ma ne mancano ben otto , anche un proiettile calibro 38”. Infine. Il delitto è del 1988, la sentenza è del 2014 (motivazioni 2015). In mezzo ci sta la storia di un territorio che a proposito di presenza mafiosa non è secondo a nessuno. La storia ma anche il presente della mafia. Qui a Trapani prima di esserci, da qualche parte, il nascondiglio comodo del latitante Matteo Messina Denaro, qui c’è la culla della mafia borghese, quella che non è fatta da coppole e lupare, ma da grisaglie e eleganti borse. Qui continuano a incrociarsi gli inciuci più importanti della mafia che in questi quasi 30 anni dal delitto Rostagno è riuscita a diventare Stato. Anzi, è riuscita e entrare nelle stanze dello Stato, ha i suoi uomini , ma anche le donne, che siedono nelle giuste poltrone, ha fatto grandi balzi in avanti Cosa nostra, si può permettere oggi di negare la sua esistenza e di farla negare anche ad altri, può recitare anche il rosario dell’antimafia, e cerca senza usare le armi di mandare all’aria il vero e genuino impegno antimafia, basta qualche schizzo di fango che oggi funziona meglio di un proiettile calibro 38.


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