Quando la casta si sente accerchiata dalla legge, cerca di manometterla. In modo strutturale, facendo mancare (da anni) adeguati fondi e organici alla giustizia; ma se il sabotaggio funzionale non basta, provvede con ulteriori danneggiamenti.
Berlusconi ne ha fatto un segno identitario del suo ventennio, promulgando leggi “falla” e coprendo d’insulti i magistrati che gli hanno impedito di frodare. Il PD di Renzi – dismessa l’obsoleta “questione morale” di Berlinguer – si adegua, ma con l’ipocrisia di contrastare la legalità, facendo finta di volerla favorire.
Così, arriva la proposta di mettere limiti di tempo (3 mesi) per le inchieste del pubblico ministero, in modo che nei casi più complessi – perché più gravi – la necessità di maggior tempo provochi l’avocazione del procedimento. Cioè, un trauma istruttorio a tutto vantaggio del mafioso o corrotto d turno, che ha sofisticato così bene la violazione, da rendere necessario più del trimestre concesso al PM per ricostruirla.
Una persona di buon senso la prima cosa che si chiede è perché mai lo Stato si ponga da solo dei limiti così stretti contro i reati (mafia, corruzione, concussione, ecc.) che più lo minacciano. E ancora: perché se gli italiani sono già avviliti da omertà, individualismo e “zittismo”, si vuole punire quei pochi che si organizzano per reagire e registrare un ricatto? Filmare una irregolarità? Denunciare un disservizio? Uno spreco?
La risposta è semplice: la casta vuole estendere la penombra dell’impunità. Che si chiami immunità, prescrizione, privacy non ha importanza. Quello che conta è arricchirsi e poi pronunciare la frase: “Sono sereno”. L’unica dichiarazione sincera di un politico inquisito, da una magistratura sempre più sabotata.
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