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Addio “Corriere Mercantile”

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L’annunciata chiusura delle pubblicazioni del “Corriere Mercantile” e della “Gazzetta del Lunedì” è un colpo al cuore. Stiamo parlando di pietre preziose dell’editoria italiana, di una storia iniziata nel 1824 per rispondere alle esigenze moderne di una città dotata di un porto di importanza straordinaria. Le vicende dell’informazione sono sempre intrecciate con quelle dei trasporti e proprio il caso del “Corriere Mercantile” è particolarmente significativo. Di più. Nel 1978 nacque la cooperativa che ha deciso in queste ore di cessare le pubblicazioni, scrivendo pagine bellissime. Ma non è una morte accidentale. Ci sono responsabilità pesanti in capo all’attuale governo, che è costantemente evasivo e vago sul rifinanziamento del Fondo dell’editoria, prosciugato fino alla soglia di 27 milioni di euro, di fronte ad un fabbisogno di almeno 80. E pochi anni fa le risorse erano poco meno di 250 milioni. Insomma dieci volte superiori a quelle di oggi. Vi è il rischio concreto che la terribile uscita di scena del “Corriere” sia il colpo finale della crisi: numerose altre testate, delle duecento interessate dal Fondo, potrebbero seguire la stessa sorte.

La colpa è grave. L’allarme è stato lanciato moltissime volte, fino alla nausea. Le associazioni che diedero vita alla campagna “#Meno giornali Meno liberi” hanno urlato inascoltati. Anche il recente incontro del “Tavolo” presso il Dipartimento per l’editoria della presidenza del consiglio, tenutosi lo scorso 17 luglio, è rimasto nel cielo delle ipotesi e delle buone intenzioni. Si parla ormai da mesi di riforma dell’editoria, per rivedere ed ammodernare la vecchia normativa, la legge 416 del 1981. Ci vorrebbe davvero, per entrare definitivamente nell’era digitale senza morti e feriti. Tuttavia, non si è visto al momento proprio nulla. Anzi, da ciò che trapela sembrerebbe trattarsi di un semplice ritocco della normativa varata nel 2012 (l.103), che introdusse criteri rigorosi  legati al numero di contratti a tempo indeterminato nonché alle copie effettivamente diffuse. Insomma, Il Fondo non è da tempo la terra di bengodi di cui capziosamente si parla. Vari giornali sono stati esclusi e la platea è formata soprattutto dalle voci libere e indipendenti non legate alle concentrazioni editoriali. Così, non è vero che solo in Italia vi siano risorse pubbliche destinate alla stampa. Dice così il secondo il recente Rapporto “Public Support for the Media, a six-country overview of direct and indirect subsidies”, elaborato dall’università di Oxford. Austria, Danimarca, Finlandia, Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Francia, quest’ultima generosa con ben 200 ml di investimento: dopo aver celebrato gli Stati generali dell’editoria, da lustri attesi in Italia. Invano.

Quante volte ci si è chiesto come mai vi sia un simile accanimento contro la parte dell’informazione che sta nella delicata zona di confine del non profit, dell’espressione delle diverse opinioni politiche, della rappresentazione delle istanze locali. E l’attuale governo non è meglio del periodo di Berlusconi, quando fu tolto il “diritto soggettivo” e arrivarono i tagli consistenti. Forse la risposta è tragicamente semplice. L’autoritarismo soft impiantatosi nel paese considera certi giornali e certe componenti dei saperi un territorio “infedele”, non facilmente omologabile. Se qualcuno chiude, amen.

Tuttavia, non è scritto nel destino che andrà sempre così. Un’alternativa prima o poi ci sarà. Grazie a tutte e a tutti voi per la coraggiosa tenuta che avete avuto. E chissà. Domani è un altro giorno.


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