Ci stiamo abituando a credere che ormai le memorie digitali siano illimitate, per dirla in gergo, che si possa fare storage di qualsiasi mole di dati. In parte è vero, ma sarebbe utile che anche chi non lavora sull’hardware ma lo utilizza quotidianamente (è così per molte professioni, per primi i giornalisti) avesse maggiore cognizione di questo interessante aspetto dell’organizzazione del lavoro digitale. Soprattutto perché la soluzione “cloud” apre prospettive oggettivamente diverse anche per grandi volumi di dati.
Del resto, la decisione del tipo di archiviazione dipende da molti fattori, e non è estranea alle scelte delle redazioni (dove spesso esiste una figura definita “data manager”), dal momento che, di fatto, si tratta di decidere di quali dati si conserva la memoria e per quanto tempo – anche per sempre – in che qualità e, soprattutto, come questi dati vengono indicizzati e documentati. In pratica si tratta di costruire un’architettura giusta per rendere il contenuto davvero accessibile e facilmente rintracciabile. Il tutto facendo i conti con il budget, ovviamente.
Chi gestisce l’infrastruttura del data center è tenuto a passare attraverso una selezione di diverse offerte di storage, di cui deve conoscere la tecnologia per scegliere la più funzionali alle esigenze dei propri utenti e tengano conto della situazione del mercato. Utile, come sempre, un po’ di storia.
All’inizio il salvataggio e la conservazione dei dati era affidato ad un complesso sistema di schede perforate. Queste, date “in pasto” ai primi calcolatori elettromeccanici realizzati, permettevano di eseguire programmi, salvare dati e riprendere il lavoro dal punto in cui ci si era fermati nella sessione precedente. Rappresentavano, nel modello detto “macchina di Turing”, la memoria di lavoro sulla quale la macchina legge e trascrive dati e informazioni necessarie all’esecuzione del programma. I primi vennero utilizzati dall’UNIVAC, un computer da 750 mila dollari. Ha avuto il merito di velocizzare il processo di conservazione e lettura dei dati, rivoluzionando l’industria audiovisiva a cavallo tra gli anni ’50 e gli anni ’60. Nel 1956 fece la sua comparsa il primo disco rigido della storia. Era composto, esattamente come gli attuali, da dischi ricoperti da materiale magnetico, fatti girare a gran velocità. A differenza del nastro, i dati potevano essere letti e scritti in qualsiasi ordine e non necessariamente in ordine sequenziale. Conteneva sino a 5 megabyte di dati, equivalente a circa 23 nastri magnetici. Come sappiamo, i primi floppy disk arrivarono negli anni ’70, per poi evolversi come forma e come capacità di contenuto. Fisicamente identici ai CD-ROM, i DVD fecero la loro comparsa a metà degli anni ’90. Utilizzando materiali differenti per il salvataggio dei dati e differenti tecniche di lettura e scrittura dei dati, contengono molte più informazioni rispetto ad un singolo CD. Con i suoi 4,7 gigabyte di capienza, equivale a circa 7 CD-ROM.
Dispositivo di archiviazione di massa “plug-and-play” (letteralmente, attacca e utilizza), dotato di memoria Flash e interfaccia Universal Serial Bus (USB), le chiavette USB ebbero immediatamente un gran successo grazie alla loro portabilità (grandi come un accendino e pesanti poco più di 30 grammi) e alla possibilità di scrivere e cancellare i dati a proprio piacimento. Oggi le chiavette USB arrivano a contenere sino a 2 Terabyte di dati al costo di 30 Euro!
Con gli anni 2000 si è arrivati alla smaterializzazione dei supporti per mantenere memoria dei dati: siamo fra le nuvole!
Dalla seconda metà dello scorso decennio sono sorti sempre più servizi cosiddetti “cloud storage”, archiviazione on line alla quale si può accedere da qualunque luogo dotato di una connessione al web. Tutto ciò di cui si ha bisogno, infatti, è un dispositivo informatico (non solo un computer, ma anche uno smartphone o un tablet) e un collegamento Internet: accedendo al proprio account di cloud storage si potranno consultare i file già presenti o crearne altri. Secondo alcuni calcoli, nel cloud risiederebbero sino a 1 exabyte di dati (1 trilione di byte, equivalente ad un 1 milione di terabyte), più o meno come 500mila hard disk da 2 terabyte; 8 milioni 192 mila chiavette USB da 125 gigabyte; 218 milioni circa di DVD e 9 milioni di miliardi di schede perforate.
La soluzione cloud è ancora in discussione, comprensibilmente, per i grandi archivi audiovisivi legati alla produzione di TV e radio, ma appare ormai la migliore e la più economica, soprattutto a lungo termine, per tutto ciò che riguarda gli archivi più “classici”, a partire da quelli dei giornali. Una battaglia che sembra sia stata avviata da Google ai tempi del lancio di Gmail e che è stata poi perpetrata da Amazon con ingenti ripercussioni su tutto il mercato del cloud storage. Questa è l’identità di quello che gli inglesi definiscono The Race to Zero, per indicare come il costo del cloud storage ai clienti finali (privati e business) stia man a mano tendendo a zero, nonostante aumentino i limiti di spazio di memorizzazione disponibili.
Una battaglia di cui non si conoscono gli esiti, anche se i più ottimisti ipotizzano un “futuro dove lo storage è gratuito e infinito.
Una buona notizia per gli utenti che vedono crescere di continuo le necessità storage, soprattutto con la continua produzione di video e foto derivante dall’incredibile diffusione degli smartphone. Una notizia meno felice per l’industria del cloud, che si trova costretta a tagliare i prezzi se non altro per seguire le politiche di listino di alcuni big player.
Negli ultimi sei anni, Amazon ha abbassato i prezzi ben 45 volte e concorrenti come Microsoft e Google sono stati costretti a mettersi al passo, nonostante gli ingenti investimenti profusi nel miglioramento delle loro infrastrutture. Di questa corsa al costo zero sembra anche complice l’andamento del mercato dello storage: fino al 1993, un gigabyte di spazio costava a un’azienda una cifra intorno ai 2000 dollari, mentre nel 2014 questo costo è sceso fino a meno di 4 centesimi di dollaro.
L’offerta del Cloud Drive di Amazon si rinnova e sono stati annunciati due nuove piani di memorizzazione illimitata per i clienti consumer che decidono di usare il servizio di cloud storage. I due piani specifici offrono due diversi scenari di memorizzazione. Per chi ha necessità di conservare interi archivi di immagini, lo spazio illimitato è offerto a meno di 12 dollari all’anno. Chi invece vuole usare il cloud storage di Amazon per la memorizzazione di dati diversi, può usare lo spazio illimitato a meno di 60 dollari all’anno.
C’è da dire che, se l’idea di Amazon sembra brillante dal punto di vista del marketing, in realtà i 15 GB di spazio gratuiti offerti da Google e Microsoft sono ampiamente sufficienti per la maggior parte degli utenti consumer. Detto questo, al prezzo che Amazon sta chiedendo, potrebbe comunque richiamare un grande afflusso di nuovi clienti, pur non avendo esigenze di cloud storage superiori ai 2 TB.
Al di là del clamore della notizia del “tutto illimitato”, in realtà è piuttosto facile ricamare sopra le altre novità, con cui Amazon ora offre qualsiasi spazio per le foto più uno di 5GB per qualsiasi file, a meno di 1 dollaro al mese. Ed è da qui, ricordiamocelo, che comincia la corsa al ribasso del cloud storage. Se si proseguirà su questa strada anche i mastodontici archivi audiovisivi delle emittenti pubbliche e private dovranno ricominciare a fare un po’ di conti!.