Se Paolo Borsellino fosse vivo…

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Se Paolo Borsellino fosse vivo, sapremmo i nomi delle “menti raffinatissime” che nel 1989 attentarono alla vita di Giovanni Falcone all’Addaura, riuscendoci soltanto tre anni dopo allo svincolo autostradale di Capaci. Borsellino, infatti, non avrebbe consentito che un solo killer o un solo mandante della strage del 23 maggio 1992 potesse andare impunito. E questo al netto delle 37 condanne definitive, di cui 24 all’ergastolo, comminate finora per quei fatti.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, la lunga barba di Vincenzo Agostino sarebbe stata già tagliata da tempo, perché avremmo la verità sulla fine del figlio Nino e di Emanuele Piazza, le due vittime certe, ma mai certificate dell’Addaura. Per troppi decenni si è detto tutto e il contrario di tutto sul loro conto, ma rimane il fatto che proprio Falcone, al funerale di Nino Agostino, disse di dovere la vita al giovane agente.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, potrebbe chiedere a Giovanni Tinebra, allora procuratore di Caltanissetta, perché non fu sentito con urgenza come persona informata dei fatti, quei fatti relativi alla morte di Giovanni Falcone cui accennò la sera del 25 giugno 1992, durante il dibattito alla biblioteca comunale organizzato dalla rivista Micromega: «Oltre che magistrato, io sono testimone..Io questa sera debbo astenermi rigidamente dal riferire circostanze che probabilmente molti di voi si aspettano che io riferisca, a cominciare da quelle che in questi giorni sono arrivate sui giornali e che riguardano i cosiddetti diari di Giovanni Falcone. Per prima cosa ne parlerò all’autorità giudiziaria, poi – se è il caso – ne parlerò in pubblico».

Se Paolo Borsellino fosse vivo, potrebbe raccontarci quale fu l’oggetto dei colloqui avuti prima della sua morte con l’allora vicecomandante dei ROS Mario Mori. Parlarono solo del dossier “mafia e appalti” consegnato a Falcone dai carabinieri nel 1991, oppure affrontarono la questione della trattativa avviata con Vito Ciancimino?

Se Paolo Borsellino fosse vivo, ci aiuterebbe a comprendere le ragioni dell’accelerazione della volontà stragista di Cosa Nostra nei 57 giorni che separano Capaci da via D’Amelio. Fu una decisione presa in solitaria da Cosa Nostra o intervennero altri? Perché la mafia avrebbe dovuto eliminarlo in così breve tempo, provocando nei fatti l’approvazione del decreto antimafia che languiva tra i banchi del Parlamento, una volta spentasi l’eco di Capaci?

Se Paolo Borsellino fosse vivo, sapremmo il reale significato delle parole dette a sua moglie Agnese poco prima di essere ucciso: «Mi uccideranno, ma non sarà una vendetta della mafia, la mafia non si vendica. Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno, ma quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri».

Se Paolo Borsellino fosse vivo, i segreti nascosti nell’ultimo covo di Totò Riina in via Bernini a Palermo non sarebbero più segreti e soprattutto non alimenterebbero ancora oggi sospetti, ricatti e veti. «Quando si sapranno tante cose, c’è gente che si dovrà vergognare, che se ne dovrà andare da Palermo»: così disse il capitano De Donno mentre Riina veniva allontanato da Palermo in elicottero dopo la cattura, facendo presagire in qualche modo che i carabinieri in via Bernini c’erano entrati e avevano trovato carte così scottanti, al punto di far vergognare più di uno. A sminuirne le parole pronunciate davanti ai giornalisti, fu subito il suo superiore Mori che minimizzò allora quello che era uno “sfogo di un ragazzo dopo giorni di pressione”.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, potrebbe leggerci lui stesso quanto aveva scritto nella sua agenda rossa trafugata da mani sapienti tra le lamiere di via D’Amelio. Perché se è sicuro che ad uccidere il magistrato e la sua scorta sia stata la mafia, nonostante gli esiti processuali altalenanti finora registrati, altrettanto sicuro è che furono altri soggetti a far sparire una prova così compromettente non certo per gli uomini d’onore. Un copione peraltro visto anche in occasione di altri delitti eccellenti.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, il finto collaboratore di giustizia Vincenzo Scarantino non sarebbe nemmeno arrivato in aula e non ci sarebbe stata l’esigenza di ripartire da capo, dopo ventitré anni, a seguito delle nuove rivelazioni di Gaspare Spatuzza. Ci saremmo risparmiati ben quattordici procedimenti, di cui quattro davanti alla Corte di Cassazione. E soprattutto non sarebbero stati trattenuti in galera per tutti questi anni sette persone innocenti.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, non avremmo dovuto assistere allo sconcerto suscitato dal comportamento al limite della reticenza, tenuto a Caltanissetta durante il Borsellino quater, dagli uomini del gruppo “Falcone – Borsellino”, allora guidati dal superpoliziotto Arnaldo La Barbera, chiamati a testimoniare sul loro ruolo di “assistenza” prestato a Scarantino e per ciò accusati di depistaggio. Ricordiamone i nomi: Vincenzo Ricciardi, Mario Bo, Salvatore La Barbera, ma soprattutto ricordiamo cosa scrisse il fratello di Paolo Borsellino, Salvatore, al capo della polizia Alessandro Pansa: «Avvalersi della facoltà di non rispondere è molto peggio che non ricordare, avvalere, come testimoni, della facoltà concessa agli imputati di reato connesso, e si tratta di poliziotti, significa, per quelli che dovrebbero essere dei servitori dello Stato, mettere deliberatamente degli ostacoli sulla strada della Verità e della Giustizia. Significa continuare ad essere corresponsabili di uno dei peggiori depistaggi della storia d’Italia, che pure di stragi di Stato e di successivi depistaggi, letteralmente trasuda. Significa, ed è davvero intollerabile proprio perché di servitori dello Stato si tratta, mostrarsi più omertosi dei mafiosi».

Se Paolo Borsellino fosse vivo, sapremmo quale era (ed è?) lo scopo della trattativa: destabilizzare con le bombe per stabilizzare un nuovo patto tra Stato e mafia? Rafforzare la sinistra democristiana come nuovo interlocutore nel passaggio alla Seconda Repubblica? Revocare le misure antimafia più efficaci come il 41 bis o la confisca dei beni? Fare della Sicilia uno stato autonomo? Scegliere come nuovo interlocutore politico Forza Italia, grazie alla mediazione di Marcello Dell’Utri nei confronti di Silvio Berlusconi? Oppure altro?

Se Paolo Borsellino fosse vivo, non avremmo avuto le bombe di Firenze, Milano e Roma nel 1993, perché non ci sarebbe stato lo sviluppo di alcuna trattativa tra Stato e mafia, né tanto meno la necessità per quest’ultima di alzare continuamente la posta in gioco.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, il pm fiorentino Gabriele Chelazzi che per primo indagò sulla trattativa sarebbe forse riuscito ad andare avanti nelle sue indagini. Di sicuro Borsellino non si sarebbe accontentato dell’accertata patologia cardiaca per spiegare la morte del collega magistrato, avvenuta in solitudine nella notte tra il 16 e il 17 aprile 2003 a Roma, all’interno di una caserma della Guardia di Finanza.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, la storia di uomini delle forze dell’ordine come Bruno Contrada, Mario Mori, Arnaldo La Barbera, Gianni De Gennaro avrebbe preso un’altra piega, perché avrebbero dovuto misurare le loro verità con la sua caparbietà e la sua profonda conoscenza delle vicende siciliane e non.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, uomini delle istituzioni come Nicola Mancino, Claudio Martelli, Giovanni Conso, Vincenzo Scotti, Luciano Violante, per citarne solo alcuni di quelli in vita, non avrebbero perso la memoria per così tanti anni.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, i misteri avvenuti nelle carceri italiane, avvenuti in parallelo alle vicende della trattativa, avrebbero avuto una spiegazione, dal suicidio (?) del mafioso Antonino Gioè, alle revoche del 41 bis del 1993, per finire al famigerato protocollo Farfalla, con intrecci pericolosi tra polizia penitenziaria e servizi segreti.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, potrebbe spiegarci le ragioni del nervosismo manifestato negli ultimi anni da Riina nei confronti dei pm che conducono il processo sulla trattativa, Nino Di Matteo in primis, minacciato più volte di morte. Perché uno come Riina, con numerosi ergastoli da scontare, è così preoccupato di quello che potrebbe emergere da un processo come quello in corso a Palermo? Paura di perdere la faccia e la fama di capo dei capi? O paura di perdere altro?

Se Paolo Borsellino fosse vivo, sua figlia Lucia non sarebbe diventata assessore della Regione Sicilia e non avrebbe prestato il suo volto e la sua storia ad una fase della politica siciliana che definire trasformista e retorica è ancora poco.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, non avremmo dovuto provare vergogna per la frase che sarebbe stata pronunciata dal medico Mario Tutino nella telefonata al presidente della Regione Sicilia Rosario Crocetta: «Lucia Borsellino va fermata, fatta fuori. Come suo padre». Soprattutto non avremmo dovuto provare disagio per il silenzio di Crocetta.

Se Paolo Borsellino fosse vivo, avrebbe smentito ancora una volta Leonardo Sciascia, dimostrando che lo Stato può processare sé stesso e rimanere Stato.

Purtroppo Paolo Borsellino non è vivo, ma è stato ucciso domenica 19 luglio 1992 in via D’Amelio, insieme ad Agostino Catalano, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli. Morirono insieme, appena scesi dalle loro blindate, in una zona dove le tante macchine parcheggiate consentirono a Cosa Nostra di approntare la trappola mortale. Doveva esserci una zona rimozione in quell’area, in ragione dell’abitazione della madre del magistrato, un luogo sensibile per definizione, ma nessuno provvide in tal senso e nessuno pagò per tale colpevole omissione. Una delle tante omissioni di cui è lastricata la via che porta dall’autostrada di Capaci a via Mariano D’Amelio.

Eppure, siamo certi che se Paolo Borsellino fosse vivo, non smetterebbe di cercare quella verità e giustizia che ancora oggi mancano. Ecco perché oggi dobbiamo ricordare il suo sacrificio e quello di tanti altri servitori dello Stato e relegare nell’oblio le parole, gli atti e le omissioni di tanti altri che il giuramento di fedeltà alla Costituzione hanno tradito.


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