Quando mi parlava delle isole greche, del mare e del sole d’Egeo, di Pantelleria, ultimo approdo, a Santo gli si illuminavano gli occhi, quegli occhi profondi che non distoglievano mai lo sguardo dal suo interlocutore. Chissà quanta sofferenza in questi giorni per l’atroce destino, accanitosi per il tumore al pancreas, col quale ha lottato in tutti questi mesi.
E’ difficile dirsi addio, quando si è stati colleghi e amici per tanto tempo, quando si sono affrontate tante battaglie in redazione, nel sindacato, nella società civile: a volte abbiamo vinto, altre volte abbiamo fatto qualche passo avanti. Ma mai ci siamo sentiti sconfitti.
Anche se i ricordi di 30 anni scorrono in fretta, cercando episodi e aneddoti, mi rimarrà stampato nella memoria il Santo del luglio di un anno fa, nella calda estate afosa romana. Eravamo insieme ad altri colleghi della RAI per firmare la cosiddetta “transazione”, per andare in pensione, e Santo accompagnava la sua Teresa, piuttosto emozionata. Lui era ancora in forma, il male infernale era lontano dall’essere scoperto, e lui con un entusiasmo da chi ha appena superato gli esami del liceo aveva portato una macchina fotografica digitale per immortalare quel giorno, in cui Teresa, io ed altre tre colleghe, lasciavamo la RAI. “Su, dai, facciamo la foto come l’ultimo giorno di scuola!”, ci disse e ci coinvolse amorevolmente. E così ci immortalò! “Per me, il cammino è ancora lungo”, mi confessò con un po’ di malinconia, “anche se non ho ancora 60 anni, ho già maturato gli anni. I prossimi in pratica li regalerò”. Ironica profezia, Santo. Non andrai mai in pensione, perché lassù, con gli altri amici che ti hanno preceduto sarai impegnato a guidarci ancora nelle lotte e nell’onestà professionale.
Santo era un uomo dallo sguardo mite, dalla voce mai alterata, dalla ricerca del dialogo ad oltranza, inclusivo, esempio di “trasversalità” (dai tempi di Fiesole per rompere gli “steccati” delle appartenenze a partiti e salotti), di quelli che non vogliono mai darsi per vinti nelle lotte per i diritti e per la difesa della legalità. Determinato come lo erano per tradizione gli ufficiali piemontesi, anche se nella sua anima albergava la malinconia e l’irrequietezza del Sud. Come altri esempi di grandi italiani, anche loro piemontesi, e suoi amici: il procuratore Guariniello e il giudice Caselli.
Ci conoscemmo a metà degli anni Ottanta e poi il nostro cammino si intrecciò con la formazione del Gruppo di Fiesole, con il battesimo dell’Usigrai; quindi gli anni del TG3 del dopo “Telekabul” di Sandro Curzi e la creazione nel 2002 di Articolo21. Avevamo in comune tanti amici e colleghi, ma uno soprattutto mi sembra fondamentale ricordare: Roberto Morrione, grande giornalista televisivo, poi direttore di Libera Informazione, che alla sua morte prematura passò il testimone proprio a Santo.
Quello dell’impegno nella società civile è stato uno degli imperativi categorici di Santo, a partire dal Gruppo Abele di don Luigi Ciotti, cui è stato sempre legato da un’amicizia collaborativa profonda, fino a sfociare nell’associazione Libera contro la mafia, quella mafia che Santo conosceva bene da inviato al “fronte interno” e che ha saputo magistralmente documentare nei suoi servizi.
Grande cuore, oltre che guardiano dell’obiettività professionale, Santo lo mostrò anche nei suoi reportage di guerra, durante la guerra in Iraq, in Albania e Kosovo. Girò tanto di quel materiale da montare anche dei mini-documentari, di una crudezza e delicatezza assolute. Santo non dimenticava mai il lato umano delle tragedie, aldilà degli scontri militari e dei rapporti geopolitici.
Soffriva interiormente quando non riusciva ad organizzare un viaggio in qualche zona, in Italia o all’estero, dove la sua presenza di giornalista altamente qualificato l’avrebbe visto come un “faro per illuminare le periferie del mondo”.
In questa frustrazione il TG3 si è mostrato spesso una “redazione matrigna”, fino all’ultimo. Anche quando ci si incontrava in Federazione nel suo ufficio “megagalattico” da presidente (un modo ironico tutto nostro di definirlo, vista l’abitudine agli angusti spazi redazionali), tra un accenno al suo stato di salute (del quale cercava di non parlare molto, dicendo che stava migliorando, anche se si vedeva la sofferenza per le terapie e per l’avanzare del male), Santo mi ripeteva la sua angustia per come era stato “messo da parte”, come potesse solo fare ogni tanto qualche servizio, magari di commemorazione, di routine.
Riuscì, comunque, con ostinazione e sagacia a imporre il tema doloroso e oscurato dai media delle morti di Casale Monferrato per l’amianto, le tragedie arrecate all’ecosistema, le morti sul lavoro, cui si rifiutava giustamente di definirle “morti bianche”.
Nelle orazioni funebre spesso si tralasciano gli aspetti meno “politically correct”, eppure nel ricordarlo col cuore spezzato e l’incredulità della sua perdita, non si può non andare con la memoria alla metà degli anni Novanta, quando insieme facevamo parte del comitato di redazione del TG3 e dovemmo “gestire” l’arrivo della nuova direzione “atipica” per quel giornale di Lucia Annunziata. Fummo sottoposti ad attacchi miserevoli e calunniosi, ci fu persino rinfacciato un pranzo a tre con la nuova direttrice, con la quale avevamo una frequentazione professionale e politica dai tempi del Manifesto. Nonostante avessimo anche organizzato con molte difficoltà interne al sindacato la prima ed unica per la RAI “conferenza di produzione” del TG3, per trovare soluzioni editoriali innovative e moderne, coinvolgendo i TG regionali e Raitre, fummo costretti a dimetterci.
Vita non facile al TG3, dominato da una “casta di zarine e di telekabulisti”, gli stessi che fecero fuori Michele Santoro e Sandro Ruotolo, colpevoli secondo loro di non essere troppo omogenei alla linea del giornale. In realtà erano degli innovatori che offuscavano le loro mediocrità. Molti di quei “radical chic”, dopo aver ricevuto onori e prebende, nel tempo si sono addormentati nella gelatinosa omologazione renziana. Santo invece resistette sempre a queste tendenze di radicalizzazione strumentale, di perdita della propria autonomia e libertà professionale-politica-culturale. Santo era ed è rimasto un grade inviato speciale nel cuore, nell’anima e nella mente.
Santo è stato come un giunco che si frappone alle intemperie: si piegava, quando la vittoria e i numeri della democrazia ce l’imponevano, ma non si spezzava mai. La sua è stata una carriera con la “schiena dritta”, alla ricerca di ciò che il mondo dei media spesso oscura, del dialogo anche con chi è distante da noi, per la difesa dei diritti fondamentali non solo per di giornalisti, ma soprattutto per l’intera comunità, spesso maltrattata dai poteri più o meno occulti.
Grazie per averti conosciuto Santo. Mi mancherai un sacco come un fratello, un compagno, un collega.