Quando leggo sulla bacheca di una ragazza che ha poco più della mia età, una giovane parlamentare del Movimento 5 Stelle, che a breve tornerà a svolgere il proprio lavoro perché, al pari dei suoi colleghi, non vuole “marcire” all’interno delle istituzioni, mi si delinea plasticamente la misura del nostro fallimento.
Perché se Silvia è arrivata a scrivere parole così dure, aspre e convinte, pur essendo una persona di valore, unanimemente stimata e capace di conquistarsi la fiducia di un mondo difficile e dagli umori fragili come quello della scuola, la colpa non è sua: è nostra. Siamo stati noi, infatti, a mostrarle in tutti questi anni il lato peggiore di noi stessi e delle istituzioni che pure abbiamo ripetuto a lungo, con ipocrisia rara, di voler onorare e rispettare. Siamo stati noi, ammettiamolo, a farvi entrare dei personaggi che non avrebbero mai dovuto vedere in cartolina nemmeno un consiglio comunale, figuarsi il Parlamento della Repubblica, per il quale uomini come Giacomo Matteotti hanno perso la vita e ragazzi della nostra età sono saliti in montagna, per poi diventare i pilastri di una democrazia matura e credibile, proprio perché nata dalla lotta di liberazione dal nazi-fascismo e non, come questa putrefatta Seconda Repubblica, dal sangue delle stragi di Capaci e via D’Amelio e dal senso di vuoto e smarrimento collettivo che si protrae ormai da vent’anni.
Se Silvia ha scritto quelle parole è perché, giustamente, ce l’ha anche con noi giornalisti: pavidi, cinici, vigliacchi, capaci di scagliarci contro questi ragazzi entrati in Parlamento in punta di piedi, col solo desiderio di portare una ventata di onestà e d’aria pulita, come mai abbiamo fatto in tutti questi anni contro alcuni dei nobili soggetti oggi travolti da scandali, avvisi di garanzia e, addirittura, richieste d’arresto per reati gravissimi.
Personalmente, me li ricordo bene quei giorni, quando arrivarono e noi, invece di accoglierli con la doverosa curiosità e il rispetto che si deve a ciascun essere umano, demmo vita a un’autentica caccia all’uomo, tentando di metterli in ogni modo in difficoltà, schernendoli di continuo, aggredendoli qualunque cosa dicessero o facessero, andando a cercare con perfidia rara i personaggi più improponibili per mettere in ridicolo l’intero gruppo parlamentare, come se altrove allignassero De Gasperi e Togliatti ad ogni angolo.
Sì Silvia, hai ragione a sfogare la tua rabbia: siamo stati noi a costruire questa democrazia della sfiducia e del disincanto, questa post-democrazia senza rappresentanza, queste istituzioni autoreferenziali in cui chi non è parte del sistema non ha voce né dignità, quest’universo di intollerabili privilegi a causa dei quali è venuto meno, col tempo, ogni afflato etico, fino all’abisso cui stiamo assistendo in questi giorni, con il malaffare annidato ovunque e il sentimento di ribellione e scoramento collettivo che finisce col prevalere su ogni ragionamento lucido e razionale.
Sì, l’abbiamo costruita noi, negli ultimi vent’anni, questa sorta di “casa dei mostri”, nella quale hanno finito col perdersi o col preferire il silenzio persino le tantissime persone perbene che un tempo sarebbero insorte di fronte a forme di ingiustizia che non sono mai accettabili ma superano davvero ogni limite nel momento in cui ci si trova a fare i conti con le macerie fumanti di un Paese ridotto allo stremo.
E non mi riferisco, quando parlo di privilegi, ai tanto vituperati finanziamenti pubblici ai partiti che, personalmente, manterrei, pur comprendendo la necessità di regolarli con norme stringenti e di vincolarli a una rigida supervisione da parte di un’autorità terza, per il semplice motivo che li considero indispensabili se non vogliamo consegnare definitivamente la politica nelle mani delle lobby e dei potentati che già oggi se la stanno spartendo, tenendo scientificamente fuori tutti coloro che vorrebbero cambiarla e renderla migliore. Né mi riferisco al numero dei mandati, anche perché Mafia Capitale insegna che per essere dei personaggi assai poco raccomandabili non bisogna essere dei fossili: basta cedere fin da subito alle lusinghe del potere e a rapporti e pratiche che nulla hanno a che vedere con il bene comune e gli interessi della collettività.
Mi riferisco, ovviamente, ai rimborsi elettorali erogati a partiti morti e sepolti o a partiti non più presenti in Parlamento per via della conclusione anticipata della legislatura; e mi riferisco al fatto che c’è voluta la crisi più grave dal ’29 perché la politica si rendesse finalmente conto dell’indecenza di cifre elevatissime, sconsiderate, per nulla rispondenti alle spese effettivamente sostenute in campagna elettorale, fino ad annegare in questo spreco legalizzato che attualmente rischia di trasformare i partiti, se ancora li si può chiamare così, in meri comitati d’affari o, peggio ancora, in comitati elettorali al servizio di questo o di quel leader.
Al che, leggendo quel messaggio, quello sfogo, quella sana e genuina indignazione, mi è tornata in mente una parte consistente della mia storia personale, la quale mi ha indotto a interrogarmi e a riflettere su dove sarei, su come vedrei il mondo se non avessi avuto la fortuna di incontrare a diciott’anni Beppe Giulietti, il quale mi ha assegnato una rubrica tutta mia su Articolo 21, e, in seguito, Andrea Costi, col quale abbiamo costruito una collana editoriale presso Imprimatur, Sandro Cardulli che mi ha insegnato di molto ciò che so di questo mestiere, oltre ad avermi sempre accolto con affetto nei suoi giornali, e Mariantonietta Colimberti che mi ha preso all’AREL, facendomi trascorrere alcune fra le ore più intense della mia vita nello studio che fu di Beniamino Andreatta, padre dell’Ulivo e del riformismo migliore di cui oggi avremmo più che mai bisogno. E dove sarei se non avessi incontrato Vincenzo Vita, che mi ha fatto conoscere il volto nobile, e spesso per questo umiliato e messo ai margini, della sinistra; se Alfredo Reichlin e Aldo Tortorella non mi avessero narrato in presa diretta l’epopea di Berlinguer; se Raniero La Valle non mi avesse messo a contatto con la feconda saggezza del cattolicesimo democratico; se Stefano Rodotà non mi avesse regalato la testimonianza del miglior pensiero giuridico liberale e se Antonio Ghirelli non mi avesse fornito, a diciassette anni, un ritratto del presidente Pertini? Insomma, se non avessi avuto l’incredibile fortuna di conoscere la parte più bella della politica e del mondo della cultura, siete proprio sicuri che non sarei anch’io un esponente di quel partito trasversale della rabbia, della disperazione e dell’esclusione che ha trovato in questi ragazzi stellini la rappresentanza e l’ascolto che noi, con la nostra insopportabile presunzione, gli abbiamo negato?
Posso escludere a priori che non sarei anch’io uno di loro se, invece di una rubrica personale sul sito di una prestigiosa associazione per la libertà d’informazione, tornando a casa, avessi dovuto fare i conti con la solitudine e il disprezzo di chi ignorava le nostre proteste, disprezzava le nostre idee e le nostre stesse persone e arrivava addirittura a definirci “guerriglieri”?
Può uno come me tenere per se tutto questo patrimonio, questo capitale culturale e politico, questa meraviglia acquisita in anni di lavoro e ottime frequentazioni e pensare di salvarsi da solo mentre la propria generazione affonda? Sono mesi che me lo chiedo e, un bel giorno, davanti al Parlamento, nel corso di una manifestazione in difesa della scuola pubblica, mi sono reso conto di quanto fosse ingiusta e crudele questa mia scelta, e così sto provando ad aprirmi, a condividere questa ricchezza morale, a mettere la mia piccola esperienza di vita al servizio della comunità.
E mi risuonano spesso nelle orecchie le parole di Giulia, anche lei mia coetanea, anche lei stellina, anche lei parlamentare, la quale ama ripetere una frase del giudice Paolo Borsellino: “Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta”.
Lei si occupa prevalentemente di giustizia e anti-mafia, ma questa frase di Borsellino è perfetta per descrivere anche la voglia di reagire dei liceali, degli universitari, dei precari, dei lavoratori poveri, degli ultimi e degli esclusi che, ormai, sono diventati un popolo, una categoria sociale, un bacino elettorale enorme che spesso, purtroppo, non fidandosi più di nessuno, si rifugia nell’astensione.
È su questo che vorrei interrogare il Movimento 5 Stelle: siete sicuri di riuscire ancora a intercettare la fatica di esistere di questa miriade parcellizzata di solitudini? Perché la mia amara sensazione è che un tempo, sentendosi presa in giro da tutti, scegliesse voi per ritrovare almeno una speranza, mentre oggi sta cominciando ad abbandonare anche voi, vedendo un’ottima opposizione ma non una compiuta prospettiva di governo, non la possibilità di veder davvero rappresentate le proprie istanze, non l’occasione storica di conquistarsi finalmente una possibilità di riscatto. E ancora, mi piacerebbe riflettere con voi su questa rivoluzionaria idea del cittadino che si fa Stato, che diviene nuovamente protagonista, che si riappropria della sua soggettività e torna a fare politica in prima persona, seguendo il modello della democrazia ateniese o, per stare nella modernità, della politica partecipata che Bauman contrappone all’aberrazione della società liquida, caposaldo del pensiero liberista; vorrei discuterne perché la suggestione è affascinante ma temo che il passo verso l’utopia possa rivelarsi breve e senza ritorno.
Ciò che penso di questo movimento, ormai, dovrebbe essere chiaro a tutti: contro le mie stesse convinzioni iniziali, devo ammettere che ha fatto un gran bene alla politica italiana, che ha portato in Parlamento ragazze come Giulia e Silvia che meritano pienamente il titolo di onorevoli, avendo portato una boccata d’ossigeno in un ambiente infestato da troppe incrostazioni di potere e da troppi interessi opachi, e non ho remore ad ammettere che ha in parte risvegliato anche quelli come me, un tempo avviati a una grigia carriera da megafoni del potere e ora, invece, spinti a porsi domande che non si erano mai posti sul destino di un’intera generazione. Ciò detto, penso anche che debba crollare questo muro di incomunicabilità che io stesso ho contribuito a edificare con non pochi mattoni e che ad abbatterlo debba essere, in primo luogo, la nostra generazione. A tal proposito, mi torna in mente una bellissima frase di Carlos Dittborn, organizzatore dei Mondiali cileni del ’62, il quale, di fronte al devastante terremoto che aveva martoriato la sua terra, per reazione, fece scrivere in tutti gli stadi: “Porque nada tenemos, lo haremos todo” (“Proprio perché non abbiamo più nulla, riavremo tutto”). Ecco, questo è il messaggio che sento di inviarvi, questa è la visione del mondo che vorrei condividere con voi: quella di una generazione che, proprio perché è stata privata persino della forza di sperare, si rimbocca le maniche, abbatte i muri che le sono stati eretti intorno e torna a costruire, ispirandosi all’ideologia europea e inclusiva di cui oggi c’è bisogno e scegliendo non di rottamare o di rinnegare l’esperienza di chi è venuto prima di noi ma di coglierne gli aspetti e gli insegnamenti migliori, ben cosciente che solo andando insieme si può andare lontano.
Infine, una volta definiti i punti programmatici, sarà necessario accantonare gli egoismi e trovare un punto di riferimento comune: una figura che abbia idea di come si governa un Paese nelle condizioni in cui versa il nostro, che abbia una certa credibilità in Europa e nel mondo e che sia in grado di immergersi nella modernità, tenendo insieme democrazia diretta e democrazia rappresentativa, tradizione e innovazione, cercando il dialogo al posto dello scontro e rendendo evidente, fin dai toni e dai comportamenti, la sua radicale estraneità al renzismo.
L’alternativa, visto che ormai è chiaro che in primavera si vota, è uno scontro all’arma bianca fra due destre: quella economico-finanziaria-confindustriale di Renzi e quella populista e anti-sistema di Salvini, con una sinistra bella ma irrilevante (Civati e Landini) e un movimento di cittadini (il Movimento 5 Stelle, per l’appunto) forte ma, purtroppo, ininfluente a fare da comprimari.
Al che, in conclusione, ripenso alla frase di don Hélder Pessoa Câmara che citai, a diciassette anni, candidandomi alla Consulta provinciale degli studenti: “Se uno sogna da solo, il suo rimane un sogno; se il sogno è fatto insieme ad altri, esso è già l’inizio della realtà”. E poiché finora abbiamo frequentato le stesse piazze senza capirci e lo stesso mondo associativo senza mai compiere lo sforzo di confrontarci, mi chiedo quante altre occasioni crediamo di poter sprecare e, soprattutto, di poter far perdere a un’intera generazione.