#informazionebenepubblico – L’informazione italiana nell’epoca della grande corruzione (l’esempio di papa Francesco e il problema delle fonti)

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In quale contesto discutiamo di deontologia dei giornalisti? E’ a partire da questa domanda che, a mio avviso, è necessario collocare la questione posta da padre Francesco Occhetta e dal forum di Articolo 21. Credo cioè che non sia possibile affrontare fino in fondo un tema tanto decisivo per l’informazione in Italia se non partiamo dalla relazione dei media con la realtà – che è il motivo stesso del fare giornalismo – e da un guardarci allo specchio per scoprire chi siamo. Molti sarebbero gli spunti da approfondire, mi limito però a toccare due temi: la corruzione, il problema delle fonti.

Viviamo in un contesto sociale ormai largamente dominato dalla parola corruzione. In definitiva a partire dagli anni di tangentopoli in poi, lo scenario pubblico del Paese è stato divorato ipertroficamente dal malaffare, dalle tangenti, dall’infiltrazione criminale, dalla commistione – e qui il groviglio è diventato quasi strutturale – fra economia legale e illegale; le mafie agiscono non solo attraverso le forme classiche della violenza e del controllo del territorio, ma sono ormai nei consigli comunali e regionali, nei consigli d’amministrazione delle aziende, manovrano enormi flussi di denaro e investimenti. Come spiega bene padre Giovanni Ladiana, da molto tempo impegnato nella battaglia civile contro la ‘ndrangheta a Reggio Calabria, non è più il capo clan che va dal politico per chiedere qualcosa, avviene invece il contrario.

La corruzione è diventata una sorta di nuovo legame sociale informale, un ‘così fan tutti’ vissuto come l’unica strada possibile per aggirare la mancanza di diritti, per soddisfare bisogni o esigenze personali, per ovviare all’incapacità dell’amministrazione pubblica di agire in favore del bene comune. Non solo dunque grandi arricchimenti ma anche piccolo cabotaggio, elusione quotidiana della legge, traffico incessante di favori, sottomissioni, scambi fondati sul “prima io degli altri”. Nel frattempo classi dirigenti ormai al soldo della malavita, come dimostra l’inchiesta mafia capitale, oltrepassano ogni limite e costruiscono un business che direi definitivo sugli immigrati. E’ il loro capolavoro, di giorno li vogliono cacciare e di notte speculano sull’accoglienza. Ma come ha reagito il giornalismo a tutto questo?

La risposta, oltre a quella classica della denuncia, è stata quella di di provare ad aprire una via processuale alla salvezza della Repubblica (tentativo che è fallito). Ma appunto, come dimostrano i fatti, per quanti arresti si compiano, per quanti politici vengano indagati, per quanti scandali vengano alla luce in ragione dell’azione di qualche magistrato, il fenomeno è destinato a crescere. I giudici non sono eroi o almeno non dovrebbero esserlo, a volte compiono degli errori, altre volte hanno ragione, né la verità giudiziaria è l’unica possibile. E sì che la stagione delle stragi su questo punto era stata maestra.

Il giornalismo ha dato insomma, troppo spesso, una risposta in linea con gli umori della piazza, con le frustrazioni e la rabbia delle persone pure indiscutibili. In tal modo non ha svolto però, a mio avviso, quel lavoro di ricerca sulle cause, le ragioni, la profondità della disgregazione sociale che viveva il Paese. Ha raccontato la superficie – non di rado approfittandosene – senza curarsi del resto. Papa Francesco ha impostato la stessa questione in un modo che, per quanto semplice, mi sembra riporti un po’ di chiarezza: la corruzione è una forma di oppressione verso i deboli, i poveri, i disoccupati, gli anziani, le famiglie che non ce la fanno, gli immigrati. In tal modo è uscito da un moralismo un po’ asfittico e ha restituito al tema la sua valenza sociale, mi verrebbe da dire di classe. Se la corruzione diventa infatti la forma nuova dell’oppressione, a sconfiggerla non basterà un’inchiesta giudiziaria – per quanto essa sia fondata e giusta.

Il linguaggio cristiano, evangelico, in tal senso, costituisce un contributo alla riscoperta di principi fondamentali che devono essere al centro del lavoro del giornalista: la parola povertà, la parola giustizia, “il pane sporco” evocato da Bergoglio, frutto del guadagno illecito portato a casa da alcuni, rappresentano in buona parte il cuore del problema. Il giornalista, insomma, deve riscoprire nella cronaca spesso sconcertante dei nostri giorni la storia del suo Paese, l’evoluzione sociale, le storie dei singoli, le vicende politiche segnate da questa trasformazione che diventa anche cultura, antropologa, modo d’essere. Senza tutto questo è difficile capire le rivolte razziste, le paure, il decadimento dei legami sociali, la fine di un’epoca sostituita non dalla seconda o terza repubblica ma da quella “concezione rapinatoria della vita” tirata giustamente in ballo dal presidente Mattarella.

La questione delle fonti poi naturalmente è complessa, mi limito a sottolineare che la professionalità deve in questo caso ripartire da alcuni nodi irrisolti che non di rado sono diventati vizi. In generale noto che, col passare del tempo, il giornalismo sul web è sempre più costruito, più ricco di informazioni, di fonti reali. E’ anche la tecnologia a permettere e facilitare questa evoluzione. Naturalmente il web è anche il luogo prediletto dei complotti, delle foto taroccate, dei documenti segreti pubblicati chissà come. Se queste derive pericolose, resta il fatto che su Internet sta succedendo qualcosa: si assiste insomma a un’evoluzione tutto sommato positiva nelle sue grandi linee: il giornalismo professionale sulla rete sembra infatti tenere in maggiore considerazione la necessità di dire da dove viene una notizia, di citare le fonti.

Al contrario fra le ragioni della crisi della stampa cartacea e del giornalismo classico metterei in primo luogo proprio l’incapacità di assumere criteri professionali ben delineati; titolare a nove colonne sul nulla anno dopo anno produce un effetto direi da grida manzoniane o, per restare sul classico, da “tanto rumore per nulla” . Il virgolettato senza fonte, l’affermazione compiuta senza motivarne l’origine, l’anonimato nascosto dietro giri di parole abbastanza ridicoli (‘si mormora negli ambienti vicini al presidente del Consiglio’, ‘dicono alcuni suoi stretti collaboratori’ ecc.), sono altrettanti piccoli esempi di questa degenerazione che è diventata abitudine, autoreferenzialità, gioco di potere. Ancora, direi, che il giornalismo in questo caso deve riscoprire la capacità di ‘studiare’ documenti, personaggi, vicende politiche e umane, dati statistici e sociali ecc. Insomma il professionista di oggi deve lavorare molto sul contesto nel quale viene data una certa notizia, sull’interrelazione con il resto, non dimenticando mai l’aspetto divulgativo del suo lavoro. L’impresa non è sempre facile da realizzare, ma questo mi pare debba essere l’orizzonte verso il quale muoversi.


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