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La coalizione anti-Isis, i silenzi e le parole a bassa voce

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La conferenza del 2 Giugno a Parigi in cui si sono riuniti 24 paesi della coalizione anti-Isis, con le rappresentanze dell’Unione Europea e delle Nazioni Unite, Unhcr e Unesco, si è conclusa con una breve conferenza stampa tenuta dal ministro degli esteri francese Laurent Fabius, il vice segretario di Stato americano Antony Blinken e il primo ministro iracheno Haider Al-Abadi. Il tono delle dichiarazioni finali ha voluto essere positivo: Blinken ha salutato la “buona strategia politica e militare” dell’Iraq (nonostante il disastro di Ramadi, pesantissimo dal punto di vista strategico, abbia sollevato una bufera sulle forze irachene), evidenziando che negli ultimi mesi le truppe di Bagdad e quelle alleate hanno riconquistato un 25% del suolo iracheno occupato dal Califfato. È in questa chiave che il vice segretario di Stato Blinken ha sottolineato l’efficacia degli attacchi aerei effettuati dalla coalizione, mentre il ministro Fabius ha ribadito che un intervento terrestre resta indispensabile, ma è escluso che possa vedere il coinvolgimento attivo di truppe occidentali; a queste spetta invece il compito di addestrare le forze armate irachene e alcuni gruppi di combattenti siriani. Blinken e Fabius hanno insistito sulla necessità di ricompattare la popolazione irachena: indispensabili la riforma delle forze militari su cui si è impegnato il governo iracheno, la strategia di inclusione delle tribù sunnite (su cui conta il premier Al-Abadi per l’attuazione del piano di riconquista di Ramadi e della provincia di Al-Anbar ) e la centralizzazione del comando sulle forze presenti in Iraq – con particolare riferimento alle milizie sciite legate a Teheran, che finora hanno svolto un importante ruolo di contenimento contro il Califfato, ma sulle quali il governo iracheno non ha il controllo.

Accordo dunque sul piano d’azione per la riconquista di Ramadi presentato dal premier Al-Abadi e sull’urgenza di arginare l’ingresso dei foreign fighters in Siria e in Iraq (soprattutto attraverso la Turchia); sulla necessità d’intervenire sui canali di finanziamento dell’autoproclamato Stato Islamico, dalla vendita del petrolio al traffico delle antichità; sul contrasto alla propaganda mediatica, che il Califfato sta conducendo con un’abilità inquietante, e sul sostegno ai territori ripresi all’Isis, per i quali il premier iracheno chiede lo stanziamento di fondi di stabilizzazione da destinare alle operazioni di sminamento e di ricostruzione, per permettere a circa 3 milioni di persone – principalmente sunnite – di tornare alle loro case dopo essere fuggite dai combattimenti.

Toni diversi, tuttavia, hanno caratterizzato l’intervento che Al-Abadi ha tenuto alla presenza di alcuni giornalisti prima della conferenza. Alle accuse di scarsa volontà e capacità delle truppe irachene di opporsi all’avanzata del Califfato, con riferimento alla conquista di Ramadi di pochi giorni fa, il primo ministro iracheno ha risposto denunciando l’insufficienza dell’azione portata avanti dalla coalizione: anzitutto le informazioni di intelligence fornite dagli americani sono scarse – e del resto non potrebbe essere altrimenti, dato che i miliziani dell’Isis hanno modalità di spostamento e di azione frammentate, si dividono in piccoli gruppi mischiandosi ai civili e possono contare sia su tattiche simmetriche, essendosi impadroniti di veicoli ed armi convenzionali e sofisticate, che su azioni asimmetriche, molto più difficili da intercettare (a maggior ragione senza una buona presenza di intelligence sul terreno). Poi ci sono le difficoltà di accesso ad armi e munizioni: oltre a lamentare l’insufficienza dei rifornimenti bellici da parte dei membri della coalizione, Al-Abadi spiega che sebbene il governo precedente avesse acquistato delle armi dalla Russia, a causa delle sanzioni occidentali su Mosca ci sono notevoli difficoltà nella consegna; né del resto l’attuale governo ha le disponibilità finanziarie per realizzare altri acquisti di armi dall’estero.  Su un altro punto nodale, quello della sorveglianza da parte degli altri paesi sui flussi di combattenti che dall’estero raggiungo le milizie del Califfo, Al-Abadi rilancia: fino a sei mesi fa gli stranieri non superavano il 40% dei miliziani Isis presenti in Iraq, oggi sono il 60%. Se nelle fila dello Stato Islamico ci sono tanti terroristi che vengono dall’Egitto, dai paesi del Golfo e dall’Europa, non c’è solo un problema politico iracheno.

Ad ogni modo dall’incontro Al-Abadi incassa risposte positive nei limiti del possibile: la coalizione continuerà con i raid aerei e con l’addestramento delle forze locali, fornirà più armi e munizioni e gli Stati Uniti metteranno a disposizione già dalla prossima settimana missili anticarro, indispensabili per colpire i blindati riempiti di esplosivi e usati dall’Isis come camion-bomba. Sui foreign fighters si stanno intensificando i controlli e per il contrasto al finanziamento dell’Isis sono in prima linea l’Italia, gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita, a capo del gruppo internazionale che si è dato questo specifico obiettivo.

È stato più volte ribadito che le operazioni per combattere lo Stato Islamico saranno di lunga durata e che nessun risultato sarà raggiunto se parallelamente alle operazioni militari non si perverrà a una stabilizzazione politica dell’Iraq e della Siria. Teatro, quest’ultimo, a cui sono state dedicate poche, laconiche parole, auspicando che possa presto insediarsi un governo di transizione composto sia da membri dell’opposizione siriana che da componenti dell’attuale governo, ma senza Bachar (che per il ministro degli esteri francese è il recto della stessa medaglia sul cui verso c’è Isis).

Il ministro Fabius anche ha ribadito che la posizione della Francia non è cambiata nei confronti del regime siriano, rispondendo a una domanda – indirizzatagli in conferenza stampa – che probabilmente, almeno in parte, aveva la sua ragion d’essere in riferimento a una questione che in Francia ha suscitato non poco dibattito: nel mese di Febbraio infatti quattro parlamentari francesi si sono recati a Damasco per interloquire con le autorità governative e religiose, ufficiali dell’intelligence, il presidente del parlamento, il ministro degli esteri e il presidente Al-Assad. Le reazioni del governo francese, che era stato comunque informato, sono state di forte dissociazione e di dura condanna morale, e gran parte del mondo politico si è associata alle posizioni infuriate del governo. Ma c’è anche chi considera da tempo che la chiusura dell’ambasciata francese in Siria e la netta rottura dei rapporti con Damasco siano stati errori gravissimi dal punto di vista diplomatico e strategico. Poche settimane fa (proprio negli stessi giorni in cui Hollande è stato prima in Qatar, per la firma del contratto di vendita dei Rafale, e poi in Arabia Saudita, dove è stato ospite d’onore al Consiglio di cooperazione del Golfo, una prima assoluta per un capo di stato occidentale), un reportage che France2 ha dedicato al viaggio dei quattro parlamentari ha sollevato nuovamente la questione. Il reportage-inchiesta infatti ha gettato luce sull’intenso lavoro di diplomazia “parallela” o informale intessuto (soprattutto grazie al gruppo di amicizia franco-siriano e all’attività d’intelligence economica) tra Parigi e il Governo di Damasco. Oltre che per mantenere o riallacciare legami culturali, religiosi ed economici, forse anche in virtù del principio secondo cui la diplomazia serve anche, e soprattutto, a parlare con i nemici.


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