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Le grandi mutazioni che accendono la fantasia

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Da qualche tempo sono disponibili tre dei quattro  volumi di Glauco Benigni (giornalista, mediologo, “veggente”) della serie “Web nostrum”, pubblicati dalla Casa editrice fiorentina “GoWare”, sia in versione ebook, sia print on demand. Si inseriscono, con notevole originalità, in una ormai vasta pubblicistica sui temi e sulle suggestioni offerti dalla Rete, troppe volte  divisa -al solito- tra apocalittici e integrati. I materiali suggeriti alla riflessione da Benigni evocano, al contrario, una “terza via” fertile e interessante: la critica dell’economia politica del capitalismo digitale. Per entrare nelle logiche che presiedono ad un mondo reale da interpretare con canoni scientifici. Non siamo di fronte ad estasianti fuochi di artificio o all’esibizione del Circo tecnologico, con cui talvolta sembra travestirsi la retorica gattopardescamente nuovista. E neppure, guai, a chissà quali rischi per i fruitori (soprattutto giovani) assai più smaliziati del pubblico passivo della vecchia televisione. Anzi “prosumer” (produttori e consumatori nello stesso tempo). E’ in corso un “addomesticamento sociale” (Pasquali, Scifo, Vittadini, 2010) dell’ambiente crossmediale. Unificato, quest’ultimo dai codici numerici, l’essenza del digitale: il linguaggio, il vissuto dell’era comunicativa contemporanea. Ecco, allora, una prima doccia fredda per il dibattito italiano, in cui digitale sembrò essere a lungo un “aggettivo” di televisione, buono per moltiplicare i canali diffusivi e aggirare così ogni limite antitrust. Anni passati inutilmente con l’allora ministro Gasparri a discutere di numero di reti e di Sistema integrato delle comunicazioni (Sic), riducendo una rivoluzione straordinaria ad affare minore e strumentale. Una delle svariate occasioni perdute.

“Le grandi mutazioni digitali” toccano l’insieme della vita organizzata e costituiscono un punto di non ritorno, nei modelli della produzione e degli stili sociali. Il Web non è solo una tecnica, bensì pure e soprattutto un paradigma di riferimento, cui ogni discorso si deve riferire. Tant’è che il secondo volume si apre ambiziosamente con l’evocazione di Giordano Bruno e di Leibniz, premonitori “degli infiniti mondi possibili” sottesi al flusso “zero-uno”: il ritmo duale del suono informatico, che già da sé ci induce a comprendere la celebre affermazione di un altro “visionario”  -Shakespeare- “Ci sono più cose in cielo e in terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia”. Ma non basta, giustamente ci tira per la giacca il colto e agguerrito autore. Newton viene superato da Heisenberg e dal suo principio di indeterminazione. Ed eccoci alla teoria quantistica, che supera la stessa rivoluzione numerica, con una rivoluzione nella rivoluzione. Qui ci si addentra in quel paradiso affascinante dove si mischiano filosofia e scienza, vale a dire la parte sublime dei saperi. E tutto ciò avviene davvero. Derrick de Kerckhove, allievo e successore dell’altro “visionario” –McLuhan, letterato in origine- spiegò già diversi anni fa che ci stiamo avviando ai computer quantistici.

Insomma, persino il digitale è una tecnica di transizione. Von Baeyer (animatore del principale acceleratore di elettroni del mondo, il “Jefferson Lab”) ci descrive il passaggio dai bit si passa ai “qubit” (2003): dalla logica polarizzata e codificata a quella densa di soluzioni aperte e di visioni associate. Il discorso si fa complesso e difficile. Rientriamo nei ranghi dei nostri limiti. Per dire, però, che stiamo nel bel mezzo di sconvolgimenti, tali da interpellare i decisori politici e i gruppi dirigenti –in senso gramsciano- a mettere gli occhiali dell’innovazione vera. Che riguarda la curva stretta imboccata dal capitalismo informazionale, in cui molti potrebbero finire fuori strada. Il potere dei media è soppiantato dal regno degli algoritmi. Per esempio, alla Stanford University fu rielaborato l’algoritmo “PageRank” – ideato dal matematico italiano Massimo Marchiori (fuga dei cervelli interrotta dal “Jobs Act”?)-  la base del motore di ricerca che ha consentito la nascita di “Google”. E già. Chi domina nella potenza di calcolo conquista l’egemonia. Aggiungiamo. Senza contenuti, ovviamente, anche le macchine intelligentissime rimangono stupide. Insomma, produrre, produrre, produrre con la creatività digitale. Oltre ai nuovi padroni del villaggio globale, ci sono i “venture capitalist”, i rappresentanti del ceppo finanziario dal quale origina gran parte del salotto buono. Chi conosce “Sequoia Capital”, che possiede quote azionarie e orienta le scelte di 358 compagnie  “big digital “, il 10% dell’intera capitalizzazione del Nasdaq? Eppure, vi rientrano numerosi dei pezzi forti del Web: Apple, Aruba, Atari, Avid, Cisco, la citata Google, Joost, LinkedIn, Oracle, PayPal, Symantec, Yahoo!, il clamoroso caso di You Tube. Intendiamoci. Negli Stati Uniti anche la sfera pubblica –lo Stato- ha fatto la sua parte. In Italia? Mah. Per ora stiamo assistendo ai “turbamenti del giovane Torless” –ci perdoni Musil- del governo sulla banda larga, un Risiko in cui è entrato in scena un altro soggetto: l’Enel. Che lo Spirito santo laico illumini il Governo. Torniamo ad un capitolo essenziale dei volumi di Glauco Benigni. Si parla con parole condivisibili del problema enorme della Governance mondiale della Rete. Esiste un’entità –l’International governance forum, IGF- che appartiene alla famiglia delle Nazioni Unite. Fu lanciato a Tunisi nel 2005. Ovvero, diverse ere geologiche fa, data la velocità mostruosa del Big Bang digitale. Ci si rifletta, anche e soprattutto nei luoghi coinvolti della società civile. E sì, perché Internet e Governi sono una contraddizione. E non ci sono i “quanti” a salvarci dai rischi di eterodirezione e di censure. Chi controlla i controllori delle nostre vite? E’ in esaurimento la logica privatistica, che immaginò che i “domini” fossero curati da una società californiana, Icann. Ecco, come si dice, una vera sfida per la democrazia.

Fonte: “Il Manifesto”


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