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35 anni fa veniva ucciso Walter Tobagi. Intervista alla figlia Benedetta: “fiera di portare il suo cognome”

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Cinque anni fa, nel corso della trasmissione “Che tempo che fa”, a trent’anni dalla morte del giornalista Walter Tobagi la figlia Benedetta recitò un elenco delle eredità che suo padre le aveva lasciato: “Migliaia di libri. Il suo sorriso. 98 quaderni pieni di pensieri. Tante lettere. La fierezza di portare il suo cognome. L’amore per la storia e la speranza di aprire finalmente gli archivi per poterla scrivere. Il desiderio di scrivere. L’importanza di ascoltare gli altri. Il potere della gentilezza. L’indignazione. La convinzione che il terrorismo e la violenza si combattono rendendo la società più giusta…”
Tobagi fu ucciso dalle Brigate rosse il 28 maggio 1980. A trentacinque anni di distanza con Benedetta Tobagi ripercorriamo quegli anni, l’assassinio ma soprattutto la vita di un giornalista serio e rigoroso con un forte senso di responsabilità nei confronti dei suoi lettori. Merce rara ai giorni nostri…

Avevi tre anni quando tuo padre è stato ucciso e ovviamente non puoi avere ricordi diretti di lui. E’ per questo che hai deciso di ricostruire la storia della sua vita?
Non averlo potuto conoscere, non avere un ricordo anche minimo di lui era una mancanza dolorosissima. Per questo molti anni fa ho cominciato a ricostruire la figura di mio padre. Poi mi sono resa conto che per conoscerlo avevo bisogno di capire il tempo in cui era immerso. E lui nel suo tempo è stato immerso profondamente e in modo assolutamente vitale. Uso il termine vitale di proposito anche se parlo di una persona assassinata dal terrorismo perché il punto saliente del mio lavoro è stato raccontare non soltanto il lutto e l’omicidio ma il romanzo di formazione di un ragazzo divenuto uomo nell’Italia degli anni sessanta e settanta, e lo spaccato di enorme vitalità in anni di violenza e conflittualità.

Tobagi era un giornalista del Corriere della Sera e amava molto il suo lavoro. Cos’era il giornalismo per lui?
C’è una frase che lui usava spesso e che a me è sempre piaciuta: “poter capire, voler spiegare”. Mio padre era un giornalista che si documentava, scopriva, comprendeva, metteva insieme e poi cercava anche di comunicare al grande pubblico tutto questo distillato del suo lavoro cercando di offrire non soltanto delle notizie – una parte fondamentale del lavoro giornalistico – ma anche di fornire chiave interpretative dei fenomeni e della realtà. Scrivere per il Corriere della Sera, il principale quotidiano italiano, era stata la sua più grande ambizione ma lui sentiva anche la responsabilità di poter parlare ad una platea così ampia. Non so quanto, oggi, questo senso di responsabilità nei confronti del pubblico sia avvertito dagli operatori dell’informazione.

C’è una lezione che l’informazione di oggi potrebbe e dovrebbe trarre dalla sua vita?
La grande cura e la serietà nello svolgere la professione, lo scrupolo di documentarsi in modo approfondito e rigoroso. Una lezione senza tempo. Leonardo Sciascia disse che Tobagi fu ammazzato “perché aveva metodo”. Non era un giornalista investigativo, è stato scelto come simbolo. Sciocca ancora, nel rileggerlo, il volantino di rivendicazione dei terroristi che l’hanno ucciso e che scrissero di lui come il “caposcuola di una tendenza intelligente del giornalismo”. Per loro ovviamente questo era un marchio di infamia ma è un’affermazione che dovrebbe far riflettere…

Non hai mai voluto che si parlasse di lui come un martire o come un eroe
E’ una semplificazione. Si creano dei santini che poi vengono messi su un altare e ricordati una volta ogni tanto. Penso sia molto più importante, e anche molto scomodo andare a conoscere a fondo persone come mio padre o come quei tanti magistrati, poliziotti, carabinieri uccisi, o gli altri innumerevoli giornalisti ammazzati dalle mafie. E altrettanto importante e scomodo scoprire chi li ha osteggiati quando erano vivi. Se li trasformi in eroi riduci la loro vita al momento della morte ed è una grossa ingiustizia nei confronti di tutto il lavoro che hanno fatto.

In questi anni ti sei dedicata ad un lavoro di recupero della memoria delle stragi e alla realizzazione di un grande archivio. Qual è lo spirito che ti ha mosso?
Mio padre è stato anche un ricercatore e ha scritto libri di storia. E mi piace pensare ad una continuità con questo aspetto della sua vita poco conosciuto. Per questo mi sono impegnata in un progetto, sul web, per la promozione e la tutela degli archivi pubblici e privati, la declassificazione e la consultabilità delle carte su stragi, terrorismo e mafie. Il portale www.fontitaliarepubblicana.it è uno strumento per rendere disponibili documenti pubblici importanti. Cicli di sentenze sulle stragi, da piazza Fontana a piazza della Loggia, la documentazione sulla mafia, tutto il materiale sulla P2. Invece di dover affrontare onerosi  spostamenti per andare nelle poche biblioteche che conservano questi documenti una persona interessata, uno studente, un giornalista, un ricercatore, un semplice cittadino può accedere tramite il portale a tutto questo materiale. Mattone su mattone è un lavoro di ricostruzione che può essere importante per molte persone.
Fare ricerca è un lavoro lungo soprattutto quando sono così scarse le risorse a disposizione per le università e i ricercatori. Ma c’è un patrimonio immenso di documenti su cui lavorare, pezzi di storia ancora da ricostruire e da esplorare.

Più forte e diffusa sarà la volontà di conoscere la verità e più debole sarà il potere di chi cerca di insabbiare?
Certamente. Prendo in prestito le parole di Milan Kundera: “La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio”.

Fonte: “Radiocorriere Tv”


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