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Carta di Trieste, su quel documento così importante è calato il silenzio

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Conosciamo la Carta di Treviso sulla tutela dell’infanzia, la Carta di Roma sul rispetto per i migranti, conosciamo altri documenti deontologici che i giornalisti si sono dati nel corso degli anni, ma poco o nulla sappiamo della Carta di Trieste. Si tratta di un “codice etico per i giornalisti e gli operatori dell’informazione sulle notizie concernenti cittadini con disturbo mentale e questioni legate alle salute mentale in generale”, che è stato redatto a Trieste, nel 2010, nello splendido parco di San Giovanni che un tempo ospitava un manicomio: quello dove si realizzò la “rivoluzione basagliana” che ebbe il suo approdo normativo nella Legge 180. La Carta di Trieste fu fatta propria dal consiglio nazionale dell’Ordine dei Giornalisti e dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana. Sono passati cinque anni. Ma su quel documento così importante è calato il silenzio dentro e fuori la categoria. Molti, come si diceva, non ne conoscono nemmeno l’esistenza.

Per questi motivi l’Assostampa del Friuli Venezia Giulia si è fatta promotrice di un incontro, che si è svolto ieri a Trieste, al Circolo della Stampa, e che l’Ordine regionale dei giornalisti ha inserito fra i corsi di formazione professionale. Davanti a una folta platea di giornalisti (attirati – ahinoi – probabilmente più dai crediti da accumulare che dall’interesse per il tema…), protagonista del dibattito è stato lo psichiatra Peppe Dell’Acqua, uno degli “eredi” di Franco Basaglia, per tanti anni direttore del Dipartimento di salute mentale di Trieste, autorità in materia riconosciuta a livello internazionale, che è stato stimolato dalle domande della giornalista Gabriella Ziani, dei presidenti dell’Ordine e dell’Assostampa regionale e di diversi colleghi presenti.

“Non sono qui per dire cosa dovete o non dovete scrivere – ha detto fra le tante cose Dell’Acqua -, vi invito solo a ricordare che davanti a noi, davanti a voi c’è sempre una persona. La Legge 180 non ha chiuso solo i manicomi: ha restituito diritti anche a persone affette da disagio o malattia mentale. Si badi bene, senza decolpevolizzare nessuno: credo infatti che bisogna sempre riconoscere al cittadino la propria responsabilità, senza la quale un uomo non esiste…”.
Dell’Acqua ha fatto anche un interessante parallelo fra l’ormai famosa frase di Emma Bonino, pronunciata oltre un anno fa alla scoperta di avere un tumore ai polmoni (“Io non sono la mia malattia…”) e il lavoro avviato tanti anni fa da Basaglia assieme all’equipe di cui anche lui, giovane psichiatra arrivato da Salerno in quella Trieste che non avrebbe più abbandonato: anche allora di tentava di riaffermare il diritto di ogni essere umano, di ogni donna e di ogni uomo, a essere considerato tale, con i suoi diritti e i suoi doveri, a prescindere dal proprio disagio o dalla propria malattia.
Da Peppe Dell’Acqua, dall’Assostampa e dall’Ordine del Friuli Venezia Giulia, l’appello a rilanciare, cinque anni dopo la firma, la Carta di Trieste. Che prescrive: usare termini non lesivi della dignità umana, o stigmatizzanti, per definire il cittadino con disturbo mentale qualora oggetto di cronaca, il disturbo di cui è affetto, il comportamento che gli si attribuisce, per non alimentare il già forte carico di tensione e preoccupazione che il disturbo mentale comporta e non indurre sentimenti o reazioni che potrebbero risultare dannosi per la persona, i suoi familiari e la comunità nell’insieme; usare termini giuridici pertinenti e non allusivi a luoghi comuni nel caso un cittadino con disturbo mentale si sia reso autore di un reato, tenendo presente che è una persona come le altre di fronte alla legge; non attribuire le cause e/o l’eventuale efferatezza del reato al disturbo mentale né interpretare il fatto in un’ottica pietistica, decolpevolizzando il cittadino solo perché che soffre di un disturbo mentale; considerare il cittadino con disturbo mentale un potenziale interlocutore in grado di esprimersi e raccontarsi, tenendo presente che può ignorare le conseguenze e gli eventuali rischi dell’esposizione attraverso i media; non identificare il cittadino con il suo problema di salute mentale ovvero con la diagnosi di malattia; garantire al cittadino con disturbo mentale il diritto di replica; consultare quanti possono essere al corrente dei fatti per individuare visioni differenti come operatori della salute mentale e dei servizi sociali, associazioni, magistrati, per poter fornire l’informazione in un contesto il più possibile chiaro, approfondito e completo; fornire dati attendibili e di confronto tra i reati commessi da persone con disturbi mentali e persone senza disturbi mentali; integrare, se possibile, la notizia con informazioni sui servizi, strumenti, trattamenti, cure che sono disponibili nelle singole realtà locali; promuovere la diffusione di storie di guarigione e/o di esempi di esperienze positive improntate alla speranza e alla possibilità di vivere, pensare a un proprio futuro, lavorare, studiare, divertirsi, pregare; limitare l’uso improprio di termini relativi alla psichiatria in notizie che non riguardano questioni di salute mentale al fine di non incrementare il pregiudizio che i disturbi mentali siano sinonimi di incoerenza, inaffidabilità, imprevedibilità.


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