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La guerra dei droni sbarca in Sicilia

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A Sigonella si lavora per la nuova base hi tech, con un sistema satellitare indispensabile per gli attacchi dei velivoli teleguidati.

Articolo di: Stefania Maurizi – L’espresso

La base Usa di Sigonella, in Sicilia Una partita cruciale nella guerra dei droni vede il nostro Paese coinvolto in aspetti delicatissimi che, proprio mentre l’Italia piange Giovanni Lo Porto, è entrata nella fase decisiva. La stazione aeronavale americana di Sigonella (Naval Air Station Sigonella), in Sicilia, diventerà il cuore tecnologico della guerra dei droni insieme alla base di Ramstein in Germania. Che Sigonella fosse stata scelta come “il nido” di questi killer silenziosi e implacabili era cosa nota. Ma “l’Espresso” può rivelare che gli Stati Uniti hanno progettato un ruolo ben più consistente che quello di nido passivo: sarà proprio la base siciliana che, insieme con quella tedesca di Ramstein, permetterà ai droni americani di portare a termine le loro missioni letali in giro per il mondo attraverso un sistema di comunicazioni satellitari (Uas Satcom relay) senza il quale «gli attacchi armati con i velivoli senza pilota non possono essere sostenuti».

Il tutto accade senza alcun dibattito pubblico. Il sistema non è ancora stato realizzato, i documenti contrattuali consultati da l’Espresso dimostrano che la struttura è stata progettata, ma la gara di appalto per la costruzione non si è ancora conclusa. Nel frattempo, però, mentre il Muos di Niscemi ha fatto tanto rumore, della nuova struttura di Sigonella non se parla, eppure proprio il primo aprile è scaduto il termine ultimo per la presentazione delle offerte da parte delle ditte che vogliano concorrere all’assegnazione dei lavori di costruzione.

«E’ la guerra di un intellettuale», scriveva tre anni fa il settimanale tedesco “Spiegel” raccontando la guerra dei droni promossa dal presidente Barack Obama, considerato distaccato e intellettuale. Una guerra a bassissimo impatto, che non richiede eserciti, invasioni. E’ invisibile, rarefatta, la combattono team di specialisti qualificati che passano la vita davanti ai monitor con un joystick. “Operano” a distanza di migliaia di chilometri dalle vittime, da una base americana in Nevada o nel New Mexico, ma quando premono il bottone del joystick qualcuno muore dall’altra parte del mondo. Chi esattamente muoia dall’altra parte del mondo è il vero problema: nell’impossibilità di verificare in modo indipendente l’identità delle vittime, i media riportano spesso che si tratta di “presunti terroristi” salvo poi verificare il coinvolgimento di civili ridotti a puri “danni collaterali”.

Il “presunto” dice tutto di una guerra portata avanti sulla base di informazioni segrete da apparati di intelligence come la Cia. Uccisioni senza processo, senza avvocato e senza che nessuno possa esercitare una qualsiasi forma di controllo. Solo quando il “danno collaterale” non può essere minimizzato, come nel caso di Giovanni Lo Porto, allora l’opinione pubblica occidentale si fa qualche domanda. L’eliminazione dell’“obiettivo” è un lavoro di squadra: per ogni pilota di un drone, c’è un intero team che lavora per far volare il velivolo, visualizzare le immagini inquadrate dal drone che si muove sul campo, analizzarle e usarle per colpire. Tutti collegati in chat da basi diverse in giro per il mondo. Tutto è virtuale ed elettronico: la guerra dei droni è un flusso di dati. Ma la morte è una sentenza inappellabile. Gli operatori dei droni la possono vedere fino all’ultimo istante, in uno schermo.

Dal cuore tecnologico di Ramstein a quello di Sigonella

La base americana di Ramstein in Germania ha un ruolo cruciale nella guerra invisibile dei droni. A rivelarlo per primo è stato il prestigioso quotidiano tedesco “Sueddeutsche Zeitung” in un’inchiesta di due anni fa che fece emergere come i dati necessari ai droni americani per condurre attacchi letali contro i presunti jihadisti in Africa venissero proprio da Ramstein e che le eliminazioni venivano coordinate in Germania. Le rivelazioni scatenarono un caso politico. Gli Stati Uniti si erano subito difesi sostenendo che i droni impegnati nelle missioni killer non partivano dal suolo tedesco e quindi non violavano le leggi internazionali. Sueddeutsche, però, non aveva mai affermato che droni impegnati nell’eliminazione degli obiettivi in Africa decollavano dalla Germania, aveva scritto – senza peraltro essere stato smentito – che la base di Ramstein permetteva agli Usa di controllare gli attacchi dei droni in Africa.

A rilanciare e fare nuove rivelazioni sul ruolo di Ramstein sono stati due settimane fa “Der Spiegel” e “The Intercept”, il giornale fondato da Glenn Greenwald, dopo aver ottenuto i file di Edward Snowden. Citando documenti top secret di una fonte che i reporter non hanno voluto rivelare, ma che non sembrano provenire da Snowden, the Intercept ha confermato che Ramstein è il cuore hi-tech della guerra Usa dei droni . Senza la base tedesca, i droni sarebbero “ciechi”. «E’ Ramstein che fa viaggiare sia il segnale [satellitare, ndr] che dice al drone cosa fare sia quello che trasporta le immagini che il drone vede. Senza Ramstein, i droni non potrebbero funzionare, o perlomeno non potrebbero funzionare come fanno oggi», ha spiegato al giornale di Greenwald la fonte che avrebbe fornito una serie di file tecnici classificati top secret.

Il cuore hi-tech di Ramstein è il sistema satellitare “Uas Satcom relay” che permette agli operatori dei droni seduti davanti a uno schermo in una base americana di comunicare in tempo reale con gli aerei senza pilota dall’altra parte del mondo, inviando comandi al drone e ricevendo immagini di quello che l’aereo vede sul campo. Questi dati viaggiano attraverso i cavi sottomarini a fibra ottica, ma è grazie al sistema Uas Satcom di Ramstein, secondo The Intercept, che il segnale riesce a viaggiare senza ritardi (tecnicamente, “latenza”) in modo da permettere ai piloti di manovrare un veivolo a migliaia di chilometri con la necessaria tempestività.

Agli Stati Uniti non basta un unico “cuore hi-tech” per la guerra dei droni: vogliono una copia a Sigonella, in Sicilia, come ha rivelato il giornale di Greenwald. «E’ un principio delle operazioni di intelligence e militari che non bisogna mai fare affidamento su una singola struttura per le comunicazioni, perché c’è il rischio di un problema che le comprometta: serve sempre una “copia” (back-up)», spiega a “l’Espresso” una fonte informata sul dossier Sigonella. Ed è questo il ruolo che gli Stati Uniti hanno pensato per la base siciliana: fare da back-up per il sistema satellitare di Ramstein. Il progetto di questo sistema è del 2011. Quattro anni fa, fu notato giusto da qualche giornalista indipendente . Oggi, l’Espresso pubblica il file originale.

Il documento descrive il sistema “Uas Satcom Relay” come un edificio al centro di un sistema di dodici antenne. Sebbene il file sia molto sintetico e tecnico, la missione della struttura è chiarissima: «Gli aerei [senza pilota, ndr] Predator, i Reaper e i Global Hawk useranno questo sito per condurre le operazioni all’interno delle missioni Eucom, Africom e Centcom», recita, «senza queste strutture, gli aerei non saranno in grado di condurre le loro missioni di velivoli senza pilota essenziali per le operazioni di Eucom, Africom e Centcom e gli attacchi armati non potranno essere condotti». Come nel caso del sistema satellitare di Ramstein, quello di Sigonella supporterà le operazioni speciali denominate “Big Safari”, che nel documento non sono descritte. Dunque secondo il progetto degli stessi americani l’apparato sarà sì una copia di quello presente nella base tedesca, ma una copia fondamentale per evitare qualsiasi vulnerabilità e fallimento nella guerra dei droni.

L’Espresso pubblica anche alcune tavole del progetto della struttura che verrà realizzata a Sigonella: si tratta di un progetto tecnico costituito da centinaia di pagine ed elaborato, tra gli altri, da un architetto italiano che ha lavorato ai progetti delle basi di Camp Derby e Aviano. Nelle tavole tecniche si nota una costruzione assolutamente analoga alla struttura di Ramstein . Scavando nel materiale contrattuale ottenuto dal nostro giornale, risulta che la gara di appalto per la costruzione delle struttura è stata bandita solo il 13 gennaio di quest’anno, ma il bando ha subito molte modifiche tanto che la scadenza della presentazione delle offerte è slittata da fine febbraio al primo aprile scorso. L’appalto, destinato ad aziende italiane ma anche straniere, è del valore di 15 milioni di dollari e viene gestito dal Comando per le strutture ingegneristiche della Marina Usa di Napoli. Ad oggi non è stato ancora assegnato, anche se il tempo per presentare le offerte è ormai scaduto e quindi l’assegnazione dei lavori è vicina.

A differenza del Muos, che tanto fa discutere e che ha innescato una pioggia di ricorsi legali, il sistema satellitare di Sigonella sembra essere passato completamente inosservato. Quarantacinque cablo segreti di WikiLeaks, che ricostruiscono le vicende della base negli anni tra il 2002 e il 2010, dimostrano la totale collaborazione tra la nostra Difesa e il governo degli Stati Uniti sui programmi che riguardano Sigonella, una collaborazione portata avanti senza grande considerazione del dibattito pubblico che si addice a una democrazia. Nel 2004, per esempio, l’attuale capo del Dis, Giampiero Massolo, propone un gruppo di lavoro per studiare «senza pubblicità» come rendere possibile la presenza delle forze speciali a Sigonella, richiesta dagli Stati Uniti. E nel 2008, quando la Difesa approva il dispiegamento del drone Global Hawk a Sigonella per le missioni di ricognizione, raccomanda agli americani di «non annunciare pubblicamente l’approvazione fino a dopo le imminenti elezioni del 13-14 aprile».

La segretezza che circonda la guerra dei droni rende ancora più difficile far decollare un dibattito che in Italia è assolutamente inesistente. Nel suo discorso di scuse per l’uccisione di Giovanni Lo Porto, il presidente Obama ha fatto attenzione a non menzionare neppure la parola “drone”, riconducendo la morte di Lo Porto a generiche “operazioni antiterrorismo”. Ma perlomeno nel caso di Lo Porto, gli Stati Uniti hanno presentato delle scuse, che nel caso di “danni collaterali” rappresentati dalla morte di cittadini di paesi poveri come il Pakistan o la Somalia, non sono mai arrivate. A partire da oggi, al Copasir verranno sentiti i nostri servizi sul caso Lo Porto, chissà se qualcuno solleverà la questione del progetto degli Stati Uniti di fare di Sigonella il cuore hi-tech della guerra dei droni, come ormai è Ramstein. Con l’Espresso, la fonte che conosce il dossier Sigonella si dice convinta che l’Italia sia un paese allettante, oltre che per la sua posizione, anche perché ha un’opinione pubblica più passiva di quella tedesca: «Sigonella innesca molto meno controversie che Ramstein ed è anche molto meno visibile». E poco importa che proprio la terra di Giovanni Lo Porto, la Sicilia, sia destinata a diventare il regno dei droni.

da petrlapace.it

 


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