di Stefano Corradino*
Chiara Cazzaniga è la giornalista che per “Chi l’ha visto” si è gettata a testa bassa alla ricerca del supertestimone Ahmed Ali Rage, soprannominato Jelle e che, ai microfoni dell’inviata, dopo aver superato una iniziale diffidenza ha raccontato, in esclusiva, che gli promisero denaro in cambio di una sua testimonianza al processo.
Quanto tempo c’è voluto per arrivare a Jelle?
Ci abbiamo impiegato circa un anno. Quando il 20 marzo dello scorso anno c’è stato lo speciale su Ilaria Alpi per il ventennale della morte, due colleghi, uno di Famiglia Cristiana e uno dell’Espresso avevano rintracciato la moglie di Jelle. E così Federica Sciarelli mi chiese di provare a vedere se riuscivo a trovare proprio lui. Mi sono messa in viaggio e attraverso la comunità somala ho scoperto che c’era un gruppo di sostegno per Hashi (il ragazzo in carcere da sedici anni accusato dell’omicidio, ndr) che stava facendo manifestazioni in giro per il mondo, dal Sudafrica a Londra e a Mogadiscio, per chiedere la liberazione di questo ragazzo che secondo loro era detenuto ingiustamente. Ho chiesto loro aiuto e mi hanno messo in contatto con una persona che mi ha facilitato nell’incontro con Jelle.
Perché tu sei riuscita a trovarlo e, nessuno, in sedici anni, si è barcamenato per rintracciarlo? Era così difficile?
Io l’ho semplicemente cercato, non lo dico per falsa modestia… Quando lui non si presentò al processo nel ‘98 e divenne irreperibile per la giustizia italiana tanti colleghi si sono “scoraggiati” e avranno giustamente pensato che se per la Digos non era reperibile difficilmente lo sarebbe stato per un giornalista. Dopodiché la faccenda è caduta nel dimenticatoio. C’era una persona in carcere, era lui il colpevole, e due testimoni lo indicavano. Se poi le due testimonianze non erano così attendibili poco interessava. E così le cose sono andate avanti fino a quando Luciano Scalettari di Famiglia Cristiana ha deciso di andare di persona a cercarlo. Ma non l’ha trovato. A me Federica non ha dato limiti di tempo per cercarlo e questo mi ha avvantaggiato.
Jelle era diffidente?
Ovviamente sì. E si domandava perché dopo tanti anni qualcuno fosse andato a cercarlo. Mi ha detto che quando Hashi era in carcere lui chiamò un giornalista somalo per dire che era tutto falso. E l’avvocato di Hashi lo richiamò, registrando peraltro la telefonata che però non aveva alcun valore processuale perché dall’altra parte del telefono poteva esserci chiunque…
Non poteva venire direttamente in Italia per spiegare la verità?
E’ quello che gli ho chiesto io. Lui mi ha risposto che dal momento che ne avevano arrestato uno aveva paura che se si fosse presentato avrebbero incarcerato anche lui.
La sua testimonianza cambia radicalmente le carte in tavola sul caso Alpi-Horovatin.
Mette un punto fermo: c’è stato un depistaggio. Lui racconta che gli sono stati offerti dei soldi per indicare il nome del responsabile di questo omicidio, un nome che altri gli hanno detto di fare. Lui Hashi non lo conosceva affatto tanto che lo indicò solo per nome.
Sono passati venti anni, c’è speranza di arrivare alla verità?
Speriamo di sì. Forse a distanza di tanto tempo c’è anche più serenità d’animo per affrontare certe inchieste.
Anche perché molto persone indicate a suo tempo non ci sono più.
E’ così. Ilaria stava indagando sulla mala cooperazione somala, che era territorio dei socialisti ai tempi di Craxi… Ma l’inchiesta stessa è passata di mano in mano. Qualcuno è morto, qualcun altro è malato… E’ il caso di darsi una mossa. E mi sembra assurdo che ci siano ancora persone che parlino di una rapina finita male. Per questo si deve continuare a indagare: quando nel 2007 venne chiesta l’archiviazione del processo il Gip – che ovviamente si oppose – scrisse nel dispositivo che non si trattava di una rapina ma che i due erano stati ammazzati per qualcosa che avevano scoperto. E chiedeva una lista di ventisei cose da fare, testimonianze da acquisire nell’arco di sei mesi. Cose che non sono mai state fatte…
Cosa manca per completare il puzzle?
Dobbiamo sapere tutta la verità. Sapere chi ha sparato, e soprattutto chi sono stati i mandanti. E i depistatori. E se in carcere da sedici anni c’è una persona innocente bisogna tirarla fuori. Noi, con le nostre inchieste continueremo instancabilmente a cercare la verità.