Matteo Renzi è abile, c’è poco da fare. Piaccia o non piaccia, e a noi non piace affatto, è un politico con tutti i crismi; o meglio, un perfetto interprete di ciò che oggi si intende per politica: una non politica leaderistica e priva di idee, senza partiti e con le istituzioni ridotte a meri votifici, senza ideologie (non sia mai!), senza valori particolarmente spiccati, senza distinzioni fra destra e sinistra (roba vecchia!) e basata unicamente sulla gestione del potere. E nel gestire il potere, inteso come potere per il potere, governo per il governo, amministrazione per l’amministrazione, non c’è dubbio che Renzi sia il più bravo di tutti. Intorno a sé ha fatto il vuoto: ministri inesistenti, in alcuni casi vere e proprie controfigure di chi gestisce pratiche e dossier nell’ombra (un gruppo di fidatissimi consiglieri del premier, naturalmente), parlamentari ridotti a meri premibottoni, altrimenti giù con gli insulti e con le accuse di voler perder tempo “per non perdere la poltrona”, sindacati umiliati e nemmeno consultati, amministratori locali (un tempo vanto del renzismo, oggi meno perché rischiano di fargli ombra e creargli qualche noia, date le condizioni drammatiche in cui sono costretti a lavorare) trattati con un velato e, talvolta, visibile disprezzo, commentatori ostili ignorati, “professoroni” messi alla berlina e al centro lui, il novello “uomo della Provvidenza”, il nuovo “padre dei popoli” e “santo della Rivoluzione”, il portatore del verbo della modernità e dell’innovazione, colui che sta cancellando “le vestigia degli antichi padri” per condurre l’Italia dove mai nessun altro prima. E ci sta riuscendo, altroché se ci sta riuscendo! Come ha asserito con comprensibile gaudio il ministro degli Interni, Alfano, chi era mai riuscito a smantellare lo Statuto dei lavoratori? E aggiungiamo noi: chi era mai riuscito ad arrogarsi lo sconvolgimento della RAI, annunciando di volerla trasformare in una sorta di agenzia di propaganda governativa, senza che “la Repubblica” o qualche altro grande giornale, che un tempo avrebbero inondato le pagine e il web di post-it, appelli in difesa della democrazia e della Costituzione e annunci di piazze, teatri e palasport contro questa “vergogna”, alzassero nemmeno un sopracciglio? E chi era riuscito, prima del nuovo dominus, a imporre a tappe forzate lo stravolgimento della Costituzione, per giunta annunciando un referendum plebiscitario che, stando all’articolo 138 della vecchia Costituzione, quella “degli antichi padri”, dovrebbe essere una prerogativa delle opposizioni, non una gentile concessione del Sire di turno? E chi era riuscito a imporre un Porcellum al cubo, ancor più devastante per gli equilibri istituzionali, senza che nessuno, salvo pochi intellettuali “gufi”, facesse notare lo schiacciamento delle minoranze, il soffocamento delle voci dissidenti, il sacrificio della rappresentanza a vantaggio di una governabilità di facciata (che tale non sarà perché nessuna legge elettorale minimamente democratica la può garantire realmente) e, soprattutto, la riduzione del Parlamento a inutile orpello del quale, a quel punto, tanto varrebbe fare a meno? E chi, prima di lui, era mai riuscito ad annunciare di volere un governo sul modello di una giunta comunale, senza che nessuno ribattesse che l’Italia non è una costola di Firenze ma un paese lungo, complesso, ricco di differenze e pluralità che non possono essere tenute fuori in questo modo perché, come tutti i fiumi carsici del malessere, alla fine esplodono e generano disastri? E chi, prima del novello Principe, era riuscito a vantarsi per il fatto che in Emilia Romagna il PD ha vinto e “spianato” la destra, derubricando a questione secondaria un’astensione mostruosa (63 per cento) e superiore persino a quella della Calabria? E il partito ridotto a comitato elettorale del leader? Chi è rimasto ad opporsi a tutto questo? Cuperlo, Civati, Fassina, a tratti Bersani, un po’ la Bindi, D’Alema ma non hanno voce perché nell’immaginario collettivo costituiscono ormai la vecchia guardia “asfaltata”, nel riproporsi di una volontà di rogo e di purificazione palingenetica sempre pericolosa ma letteralmente devastante in tempi nei quali, alla crisi della politica, si sommano milioni di posti di lavoro perduti, una deindustrializzazione che ha trasformato le aree produttive del Paese in siti di archeologia industriale e una recessione mista a deflazione che ha condotto il nostro debito pubblico a vertici mai raggiunti nemmeno negli anni bui di Tangentopoli e della “manovra infame” di Giuliano Amato sui conti correnti.
Ma perché Renzi può agire indisturbato e riuscire dove nessun altro prima di lui? Perché è bravo, certo, ma in particolare perché somiglia tanto a uno di quei personaggi da film di fantascienza: il protagonista che si aggira fra le macerie fumanti di una città completamente distrutta, essendo rimasto l’unico uomo sulla Terra. La realtà è che Renzi non ha avversari, tanto meno nel PD: gli unici veri avversari di Renzi sono il suo carattere, il suo atteggiamento da eterno Giamburrasca e la sua incapacità di prendere sul serio un compito che dovrebbe impedirgli di dormire la notte, non consentirgli di dirsi “gasatissimo” per i progetti di un industriale che, oltre ad avere la residenza fiscale all’estero, finora in Italia non ha fatto altro che licenziare e mettere in cassa integrazione gli operai. Adesso sta invertendo la rotta? Bene, ma a che prezzo? Perché se il prezzo da pagare per avere un po’ di lavoro è il Jobs Act, ossia un lavoro senza diritti, senza tutele e senza dignità, con i sindacati estromessi dalle fabbriche e dalle trattative, i lavoratori considerati nuovamente alla stregua di schiavi e i datori di lavoro che tornano ad essere “padroni”, diciamo subito che il pane che viene offerto è “pane sporco”, frutto del declino morale e della decadenza collettiva di una Nazione che un tempo aveva la legislazione sociale più avanzata al mondo, figlia della Costituzione più ricca e culturalmente evoluta che sia mai stata scritta.
Ma vediamo adesso chi sono i sedicenti avversari del padre-padrone della politica italiana.
Flavio Tosi: oltre Verona non va
Stima per Flavio Tosi e per la sua coraggiosa decisione di tenere il punto ma sappia fin d’ora che oltre Verona è destinato a non andare. La Lega lo ha appena cacciato perché anche Salvini ha una concezione piuttosto padronale del partito e della politica e aveva capito benissimo dove volesse andare a parare il rivale: il patto iniziale era quello della convivenza, con il lombardo a tenere le redini del Carroccio e il veneto a candidarsi alle future, fantomatiche primarie del centrodestra. Poi, però, siccome “l’appetito vien mangiando”, Salvini deve essersi ingolosito e, avendo trascinato la Lega dal baratro al clamoroso sorpasso su una Forza Italia ormai allo sbando totale, ha deciso che quel ruolo lo vuole per sé, dunque fuori Tosi anche a costo di mettere a rischio la rielezione di Zaia in Veneto.
Cosa farà, pertanto, il sindaco di Verona? Si candiderà contro Zaia e proverà a contarsi, questo è sicuro. La sua recondita e inconfessabile speranza è che l’attuale governatore perda contro la Moretti, non tanto perché ce l’abbia con lui (anche se pare che i due non si siano mai particolarmente stimati) ma perché un’eventuale sconfitta in Veneto significherebbe la morte politica di Salvini e spalancherebbe le porte al progetto tosiano di un nuovo minestrone centrista insieme ad Alfano, Passera e, forse, Raffaele Fitto. Un progetto politico ambizioso, non c’è che dire, ma destinato comunque alla marginalità, in quanto i soggetti sopra citati, bene che vada, al massimo possono raggiungere il 10 per cento, non di più.
Il buon Tosi se ne faccia una ragione: è scaltro ma oltre Verona non va.
Raffaele Fitto: oltre la Puglia non va
Tralasciamo i già menzionati Alfano e Passera, ai quali, oltre ai voti, manca il quid e la capacità di fare politica, e occupiamoci dell’unico esponente degno di stima rimasto nel centrodestra: Raffaele Fitto da Maglie, paese natale di Aldo Moro. Democristiano di vecchia scuola, figlio di un ex presidente di regione, persona in gamba e abbastanza competente, macchina da voti nella sua terra ma del tutto inadatto a risalire la Penisola. Ci spiace per il buon Raffaele, ma oltre le Murge e il Tavoliere la scalata è destinata a fermarsi: non è un politico nazionale, gli mancano il profilo e gli agganci, e anche i parlamentari a lui vicini (Capezzone, Sisto, Bianconi, Bonfrisco ecc.) sono al massimo discreti mastini di territorio ma nulla più. Oltre la Puglia non va, passiamo avanti.
Matteo Salvini e Giorgia Meloni: di lotta e di piazza (ma al governo mai)
Giovani son giovani e bravi son bravi, gliene va dato atto. Il primo ha preso un movimento dilaniato dalle faide interne, sconvolto dagli scandali (i diamanti di Belsito, la laurea del Trota, la consunzione di Bossi ecc.) e ormai dato praticamente per morto e lo ha portato a superare, nei sondaggi, il 15 per cento, approfittando anche della morte cerebrale di Forza Italia; l’altra ha avuto il coraggio, non piccolo e non sottovalutabile, di abbandonare un PDL che già al termine dell’esperienza Monti faceva acqua da tutte le parti e di inventarsi un partitino che si regge interamente su di lei ma che finora, pur non avendo superato la soglia del 4 per cento alle Europee, è rimasto in piedi. Non era facile, considerando anche chi si è scelta come camerati d’avventura, ma lei c’è riuscita: onore al merito.
Ora, è probabile che questi due soggetti, insieme alle frattaglie della galassia nera romana e a qualche cespuglio indipendentista o localista preso qua e la, unendosi, possano raggiungere la quota shock del 20 per cento ma, proprio per questo, costituiscono l’elisir di lunga vita di Renzi. Fra loro e l’istrione fiorentino, l’80 per cento degli italiani votanti sceglierebbe Renzi (modello Chirac contro Le Pen alle Presidenziali del 2002) e almeno il 50 per cento dei connazionali preferirebbe risparmiarsi lo strazio di recarsi alle urne. Io sarei tra quelli.
Il Movimento 5 Stelle: ma chi sono?
Chi sono ormai i 5 Stelle? Secondo me, non lo sanno più nemmeno Grillo e Casaleggio, i quali si guardano in faccia e si domandano: ma questa democrazia diretta in cui il sacro blog decide tutto e chi dissente viene mandato via a colpi di clic, non sarà mica una macroscopica idiozia? Sbarcati in Parlamento per rivoluzionare tutto, si ritrovano oggi con una parte dei fuoriusciti che pagherebbe di tasca propria per sostenere Renzi ma non disdegnerebbe un ministero (Renzi lo sa benissimo e, ovviamente, non darà loro nulla o, al massimo, un sottosegretario agli starnuti), con la parte migliore degli usciti e degli espulsi che vorrebbe costruire un progetto politico a sinistra ma non sa con chi mettersi in contatto (SEL ormai ha fatto il suo tempo e il primo a saperlo è un galantuomo come Nichi Vendola) e i deputati e senatori rimasti che un tempo credevano davvero di poter costruire un’alternativa di governo ma ormai hanno capito che con Renzi non toccano palla, dunque sbraitano, ne sparano di tutti i colori e si lasciano andare alla pura testimonianza, dicendo spesso anche cose giuste ma non riuscendo nella maniera più assoluta a far pesare i milioni di voti che hanno preso nel febbraio del 2013. Bersani gliel’aveva detto: o fate partire il governo del cambiamento o un giorno vi troverete a riflettere sul fatto che “avremmo potuto dire, avremmo potuto fare”. Purtroppo, aveva davanti a sé Crimi e la Lombardi.
I ras locali: politicanti e reucci
Ne è piena l’Italia, da nord a sud, ma diciamo che questi non sono veri avversari. Tanto Renzi quanto Salvini li utilizzano per incrementare il proprio potere e mettere a tacere eventuali dissidi. Possono tornare utili alla bisogna ma nel lungo periodo, sia il Matteo toscano che quello lombardo, si guardano bene dal metterli in primo piano: a livello locale, dove i voti si macinano nei modi che tutti purtroppo conosciamo, possono anche far comodo; sul proscenio nazionale, dove ancora esiste un voto d’opinione (sia pur molto più flebile rispetto a qualche anno fa), i voti li fanno perdere.
Alla larga!
La sinistra dem
Mi spiace dirlo, considero queste riflessioni le più dolorose ma purtroppo sono inevitabili. Con questa minoranza non si va da nessuna parte. Brava gente, per carità, colta, competente e anche dotata di notevole senso dello Stato ma agli occhi della maggior parte dei cittadini Civati non è abbastanza maturo, Fassina è l’incarnazione del “vecchio PD”, i Bersani, i Cuperlo e D’Alema sono animali preistorici e la Bindi non fa eccezione. Tutti giudizi altamente sbagliati ma questa è la percezione che hanno di loro persino molti di coloro che non voterebbero Renzi nemmeno di fronte a un plotone d’esecuzione. E il fatto di aver negato, e a tratti persino deriso, ogni ipotesi di scissione in nome della fedeltà alla ditta, non aiuta.
Occorre un ricambio senza rottamazione, ma ci vuole tempo.
La coalizione sociale
Splendida idea, lanciata da Landini e Rodotà, con il primo ad assicurarle dinamismo e radicamento nel Paese e il secondo a rafforzarla sul piano giuridico e dell’esperienza, ma è un progetto in fieri. Vendola, come detto, ha subito colto la palla al balzo, ben sapendo che SEL ha ormai esaurito la propria spinta propulsiva, e anche Civati, Fassina e altri esponenti della minoranza dem paiono interessati alla cosa. Il guaio è che per costituire un soggetto politico non basta la buona volontà: ci vuole tempo e, soprattutto, bisogna vincere scetticismi, timidezze, reciproche differenze e aprirsi a una società in ebollizione: dagli studenti in lotta contro la disastrosa contro-riforma della scuola ai metalmeccanici di Pomigliano e Mirafiori. Se si partisse oggi, ci vorrebbero, nella migliore delle ipotesi, tre anni. In tempo per le elezioni del 2018 ma, proprio per questo, secondo noi, Renzi si stufa prima e, al massimo, nel 2017 si vota.
È una speranza ma non facciamoci illusioni.
Queste sono solo alcune delle ragioni per cui temo che dovremo sopportare Renzi ancora per qualche tempo. Una prospettiva agghiacciante ma nessuno dei soggetti analizzati è esente da colpe.