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Rai, non sono bastati 40 anni

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Anni di convegni, dibattiti, manifestazioni, scontri in parlamento e fuori, divisioni profonde anche all’interno dei singoli partiti: era questa la premessa con cui si arrivò, nella primavera di 40 anni, a far approvare la legge 103 del 14 aprile 1975, cioè la riforma della Rai. Oggi viene additata come la madre di tutti i mali, l’emblema della lottizzazione e il contrario della meritocrazia.

Dando per scontata l’impopolarità di questa posizione, mi sento di dire senza retorica che quella della Rai nel ’75 fu una delle tante buone riforme che gli anni ’70 hanno dato al nostro paese, ingiustamente rimosse per colpa del terrorismo che ha oscurato per sempre quel decennio riformista (ma sul serio!), al quale solo alcuni storici illuminati, come Guido Crainz, hanno il coraggio di rendere giustizia.

Alla fine degli anni ’60 la Rai era una realtà fortissima e affermata anche in Europa, questo ormai è un dato storico. Tuttavia, pur con aperture a professionisti di varia estrazione culturale, quella Rai era rigorosamente governativa, dal governo dipendeva, al governo rispondeva. Era la fase di maggior forza della prima repubblica, la Rai uscita fortissima dal fortissimo decennio dei sessanta, gli anni della lira oscar delle monete, del boom economico, dell’industrializzazione, delle prime “villeggiature” e, appunto, dell’esplosione della televisione.

Mancava, però, il pluralismo, la molteplicità delle voci, il taglio editoriale diverso fra un giornale e l’altro, la declinazione diversificata della democrazia. Per questo fu giusto battagliare e ottenere una Rai che accentuasse la caratterizzazione di servizio pubblico nella chiave di una maggiore pluralità di offerta e che dipendesse, proprio con questo obiettivo, dal parlamento, cioè dai rappresentanti votati dal popolo.

La vera rivoluzione fu questa. Era giusta e nessuno di coloro che di questa riforma furono protagonisti deve oggi pentirsi. Nel corso degli anni la riforma della Rai è stata trasformata in lottizzazione, a volte selvaggia, ma i momenti peggiori non sono stati quelli legati alle basi della legge del ’75, i momenti peggiori sono venuti dopo, con il sistema maggioritario e con i governi Berlusconi, in assenza assoluta di una legge sul conflitto di interessi.

La rivoluzione della Rai degli anni ’70 è storia, per fortuna la nostra epoca ha la forza delle testimonianze in suoni e immagini, ha gli archivi audiovisivi e da quelli non si scappa: lì ci sono le grandi inchieste di Sergio Zavoli, le corrispondenze di Demetrio Volcic, i reportage di Jo Marrazzo, le dirette di Massimo Valentini, le telecronache sportive di Martellini, le interviste di Gianni Minà, le divulgazioni scientifiche di Piero Angela, le geniali gag di Mike Bongiorno, le notti lunari di Tito Stagno e Ruggero Orlando, gli impeccabili TG1 di Emilio Rossi, gli audaci TG2 di Andrea Barbato, gli Odeon di Giordani e Ravel, le sperimentazioni di Massimo Fichera…potrei andare avanti per pagine e pagine e troverei decine e decine di professionisti straordinari in quel decennio, forse alcuni vicini alla DC, altri al PCI, altri al PSI o qualche altro partito del tempo, ma che importa? Erano i più bravi. Ecco la chiave di volta di ogni dibattito sulla Rai e ancora di più di quello in corso oggi: la qualità. Quei partiti, quelli della riforma di 40 anni fa, alla Rai mettevano i migliori. Rispettavano i professionisti non schierati se erano bravi, se li conoscevano cercavano di convincerli alla loro causa, se li sceglievano prendevano i più bravi. Non era la soluzione migliore, ma era una soluzione di qualità

Poi è andata diversamente. Ma conta il presente. L’ultima occasione davvero, ci piaccia o no. Tre testate, tre reti generaliste non hanno senso nel 2015: forse non si risolveranno le cose con due megadirettori – che in fondo rispetto alla tripartizione prefigurano solo il passaggio al maggioritario con 20 anni di ritardo – ma resta il fatto che l’assetto attuale è completamente fuori del tempo.

Ma altrettanto fuori tempo e soprattutto mortificante per la democrazia sarebbe la soluzione della Rai di governo. Lo abbiamo visto in questi 10 anni di legge Gasparri, che hanno fatto rimpiangere, e tanto la legge del 1975. La fondazione può essere una via d’uscita abbastanza risolutiva solo se non sarà nelle mani del governo. La penso come Roberto Zaccaria: un ente che raccolga davvero le istanze della società così come è quella italiana di oggi, non di ieri o l’altro ieri. Caso mai possibilmente di domani.

E poi le regole rigide per la scelta degli amministratori e dei dirigenti. Abbiamo sinceramente visto di tutto in questi anni: riciclati, incapaci, digiuni della materia, finti esperti, autodichiarati guru digitali, pseudoscrittori, ipotetici creativi, autori dilettanti…e soprattutto una lunga trafila di servitori. Non so se la strada siano i curricula, ma certamente una discussione pubblica sui titoli dei candidati e una garanzia che parta dalle cariche più alte, cioè dalla presidenza della repubblica e dai presidenti delle camere, dovrebbe riuscire a scogliere questo nodo. La forza di una riforma anch’essa non esente da errori, come quella del ’75, fu, almeno per un certo numero di anni, quella di scegliere professionalità forti e competenti. Non dovremmo stancarci mai di ripeterlo e di avere anche il cinismo di dire “la pensino come gli pare, purché bravi”!


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