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Rai, avamposto e laboratorio di una novità politica

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Se davvero si ricomincia a tessere la tela con il Movimento 5Stelle (e viceversa, ovviamente), allora può essere la volta buona. Diciamo pure forse, per mantenere senso critico e prudenza. Tuttavia, la riforma della Rai, la legge sul conflitto di interessi, una decente normativa antitrust – con l’abolizione della Gasparri e la ridefinizione del “Sic”- potrebbero avere i voti per passare. Le aperture di dialogo di Beppe Grillo vanno raccolte, senza fariseismi o inutili retoriche. Però, va colto l’attimo. E ancora una volta la Rai è l’avamposto, il laboratorio di una novità politica. L’azienda di viale Mazzini di Roma ha spesso prefigurato l’andamento della vita pubblica e delle trasformazioni in corso. Sarà così anche questa volta?

Roberto Zaccaria ha proposto dei “paletti” utili a definire i contorni della revisione del servizio pubblico. Ottimi e largamente condivisibili. In verità, gli aspetti cruciali dello svincolo della nomina del consiglio di amministrazione dalle logiche partitiche, della trasparenza delle scelte, della sottolineatura dell’essenzialità del “pubblico” nell’era digitale si rintracciano sia nella proposta di legge presentata alla Camera dei deputati da Sinistra, ecologia e libertà con Pippo Civati; sia in quella di 5Stelle. Se il governo accetterà di confrontarsi –con un suo testo, ovviamente- nella sede parlamentare, il metodo è già metà dell’opera. L’articolato depositato in queste ore da Sel con Civati, Sandra Zampa, Luca Pastorino e altri è il frutto di un lavoro lungo e complesso, diretto con perspicacia da MoveOn, movimento di cittadini finalizzato proprio al rispetto della libertà di informazione. Il confronto è ancora aperto e già nelle prossime settimane si potrà tracciare un primo bilancio. La dialettica in corso è tra il tentativo strisciante di ridimensionare sensibilmente la futura portata della Rai (anche con parziali privatizzazioni, come è il caso di Raiway); o al contrario l’ampliamento della categoria di servizio pubblico con l’idea “rivoluzionaria” del bene comune. Infatti, la cittadinanza digitale richiede la massima opportunità per tutti di usufruire delle varie piattaforme di consumo che le tecniche ci offrono e ci offriranno. Quella del bene comune è una visione storica, non un modello organizzativo. Teoria e pratica nello stesso tempo.


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