L’hanno ucciso in uno dei luoghi magici di Mosca, sul Moskvoretsky Most, il ponte che attraversa la Moskova, il fiume sotto il Cremlino. Quattro colpi alla schiena, quanti i figli che Boris Nemtsov lascia. Sparati da una pistola Makarov, in dotazione in Russia a esercito e polizia. Aveva cinquantacinque anni ed era considerato il leader dell’opposizione al governo. Scienziato nucleare e ambientalista aveva il vezzo (pericoloso) dei dossier: prima su Chernobyl, poi sulla Cecenia e ora sull’Ucraina, ma soprattutto la sua grande battaglia è sempre stata contro la corruzione. Nemico dichiarato di Putin lo accusava di essersi arricchito indebitamente. Figlio ribelle della nomenklatura, già vicepremier sotto Eltsin, conosceva bene i meccanismi seguiti dopo il crollo del partito comunista e la nascita dei cosiddetti oligarchi, come spiego – perdonate l’autocitazione – nel libro “Mafija”.
La commissione d’inchiesta, guidata direttamente dal presidente, si è affrettata a sminuire la portata di questo nuovo omicidio eccellente, intanto dando la colpa ai separatisti ucraini e addirittura ai fondamentalisti islamici, ma soprattutto usando il vecchio, collaudato sistema: sminuire cioè con disprezzo la personalità della vittima. Mentre una folla di moscoviti ricopriva con tappeti di fiori il luogo del delitto, il portavoce di Putin, Dmitry Peskov, ha dichiarato che Nemtsov “non contava niente”, insomma che non rappresentava un pericolo politico. Stesse frasi, e la circostanza è drammatica, dette dopo l’omicidio di Anna Politkvoskaya, di Livtinenko, di Magnitskis e di altri dissidenti. Strano che prima della sua morte circolavano manifesti con Nemtsov dichiarato nemico del popolo e la tv governativa lo definiva “agente occidentale”. Per non dire che l’omicidio è avvenuto alla vigilia di una grande manifestazione di piazza per denunciare la crisi russa, ma soprattutto l’ombra della corruzione.
L’ex presidente Gorbaciov teme ora una destabilizzazione del Paese, mentre tutti i leader occidentali hanno reagito con sdegno. E’ evidente che il Cremlino tema adesso che l’ultima vittima diventi un’altra icona del dissenso, specialmente all’estero e che la manifestazione si trasformi in una gigantesca marcia funebre. Dal crollo del comunismo ad oggi, già l’ho ricordato, sono stati uccisi trecento giornalisti, settanta sotto l’era Putin (per non dire di quelli finiti nei manicomi criminali). Nessuno contava niente?