Più che un articolo, diciamo che questa è una ricognizione. A nostro giudizio, infatti, è ormai necessario un navigatore per orientarsi nel marasma della politica (o forse della non politica) italiana, dove rispetto al 2013 sembra passato un secolo, dove i partiti nascono e muoiono nell’arco di una stagione, dove ad ogni tornata elettorale la scheda che gli elettori si portano in cabina presenta simboli del tutto diversi rispetto alla tornata precedente, dove quasi duecento parlamentari hanno cambiato casacca in meno di due anni, dove sono quattro anni che i governi nascono a dispetto della volontà popolare, o addirittura contro di essa, e dove la politica estera e di difesa viene decisa dalla NATO e quella economica dai tecno burocrati che agiscono nell’ombra a Bruxelles.
Cos’è rimasto, dunque, di quella che un tempo era considerata l’“arte nobile” per eccellenza? Poco o nulla ma cerchiamo, comunque, di trovare il filo di Arianna per uscire da questo labirinto apparentemente senza sbocco.
PD: l’equivoco di Renzi
Il primo problema, per dimensioni elettorali e consistenza dei gruppi parlamentari, è costituito, ovviamente, dal Partito Democratico. E qui l’equivoco è massimo, in quanto ad essere in errore non è Renzi, segretario-premier asceso al potere grazie a una notevole dose di faccia tosta e, soprattutto, alla dissoluzione del sistema nel suo complesso, quanto i suoi oppositori o sedicenti tali. Perché a Renzi, al netto dei suoi innumerevoli difetti, tutto si può dire tranne di non essere coerente col suo progetto originario: voleva un partito blairiano, liberista, post-ideologico, con le sembianze di un comitato elettorale del leader, capace di inglobare in una prospettiva di governo sia l’ex rifondarolo Migliore sia gli ex montiani di Scelta Civica e di rottamare e porsi in contrasto col Parlamento e i corpi intermedi ed è stato abilissimo a perseguire con tenacia i propri obiettivi. Chi non ha capito nulla sono proprio i suoi oppositori, i quali continuano a vedere in lui un uomo di sinistra, magari un po’ populista ma comunque in linea con la tradizione classica del partito, senza accorgersi che Renzi vince e piace da morire agli elettori berlusconiani in fuga da Forza Italia proprio perché è l’opposto di ciò che un tempo era il PD. Innanzitutto, non è di sinistra: l’ingresso nel PSE è stato una pantomima utile a compiacere l’ala sinistra del partito in vista delle Europee, onde evitare possibili smottamenti, ma a Renzi della collocazione europea non importa assolutamente nulla, anche perché è tutto da dimostrare che il PSE e i partiti che lo compongono abbiano ancora qualcosa a che fare con la sinistra. In secondo luogo, non ha una tradizione storica alle spalle: in gioventù è stato democristiano ma la verità è che Renzi è unicamente renziano, astorico, lontano anni luce dalla tradizione di tutti i partiti italiani, e incarna a meraviglia un anti-politica di governo mista a un populismo demagogico basato su infinite promesse che lo fanno sembrare, agli occhi dell’elettorato meno attento alle vicende della politica, dinamico e vivace, in grado di condurre il paese fuori dalle secche della crisi e di rompere con il presunto immobilismo che avrebbe paralizzato l’Italia negli ultimi vent’anni. Naturalmente si tratta solo di slogan e frasi fatte, la realtà è ben diversa e Renzi lo sa, ma a livello elettorale per ora funziona, dunque avanti tutta. Il terzo grande equivoco legato al leader di quest’ex partito è che mentre il centrodestra continua a cercare invano una figura in grado di aggregare il vasto mondo dei cosiddetti “moderati”, questi l’erede di Berlusconi l’hanno già trovato e ne sono molto felici: è Renzi, che di sinistra non ha nulla ma garantisce una prospettiva di governo anche piuttosto lunga, vista l’assenza di avversari credibili; pertanto, va bene agli elettori di destra che ritrovano in lui le loro idee e al ceto politico ex di sinistra che, grazie a lui, si mantiene ben saldo sulla poltrona. Non va bene, per opposte ragioni, al ceto politico della destra, che con Renzi in gioco non ha più ragione di esistere, e agli elettori di sinistra che non accettano una linea politica marcatamente liberista, ma di questo a chi davvero decide le sorti delle nazioni e dei governi non importa nulla, al che temiamo che l’ex sindaco di Firenze sia destinato a rimanere a Palazzo Chigi fino a quando non arriverà a consunzione e verrà sostituito da un successore inserito nello stesso filone di pensiero.
Il Nuovocentrodestra: al governo purchessia
Con tutto il rispetto per la persona, dove volete che vada il povero Angelino Alfano? La migliore definizione dell’ex delfino di Berlusconi l’ha fornita proprio l’ex Cavaliere: “Gli manca il quid”. Non ha carisma, questo è evidente: con lui il PDL era sprofondato al 15 per cento, tanto che Berlusconi dovette tornare in scena, cosciente del fatto che con Bersani poteva ancora agitare lo spettro dei “komunisti” e mantenere faticosamente in vita un partito ormai estinto, la cui parabola politica si è conclusa la sera del 12 novembre 2011, trattandosi, al pari dell’attuale PD renziano, né più e né meno che di un’alleanza di personaggi diversissimi tenuti insieme dal potere e in alcuni casi, purtroppo, dalla necessità di sfuggire ai processi.
Il Nuovo Centrodestra è nato nel settembre del 2013 perché Alfano e i ministri al seguito non avevano alcuna intenzione di abbandonare la poltrona ma non ha un programma di governo, non ha proposte originali, viene anticipato e cannibalizzato costantemente da Renzi e ha un ceto politico reduce da mille battaglie e, sinceramente, vetusto agli occhi della maggior parte dell’elettorato.
Alla luce di tutto questo, e del fatto che pur alleandosi con quel che resta dell’UDC non andrà mai oltre percentuali residuali, Alfano ha come unico programma quello di restare al governo il più a lungo possibile, accettando tutto, votando qualunque cosa e intestandosela, cosciente del fatto che Renzi è abbastanza di destra da consentirgli di rivendicare di fronte ai propri elettori risultati che nemmeno con i governi Berlusconi era riuscito a realizzare, quali l’abolizione dell’articolo 18 e lo smantellamento dello Statuto dei lavoratori.
Forza Italia: allo sbando totale
L’altro grande equivoco riguarda Forza Italia: un partito che, come detto, non esiste più da tempo, essendo ormai ridotto a una guerra per bande in cui si intrecciano interessi opposti e inconciliabili. Da una parte Verdini e Romani, ossia il più abile a intuire e sostenere fin dai tempi in cui si candidò alla guida di Firenze il vero erede di Berlusconi e l’ex uomo Fininvest, interessato, al pari di Berlusconi, a difendere più le aziende che il partito. Dall’altra Brunetta, iracondo per essere stato messo da parte, ormai abbandonato anche dai suoi e costretto ad andare al Quirinale da solo fra le ironie sprezzanti dei colleghi, cui tutto sommato Renzi sta bene e la permanenza in Parlamento interessa assai più delle sorti di una nave che imbarca acqua da tutte le parti. Infine Fitto, un quarantenne brillante e discretamente abile, pugliese al midollo, capace di reggere un collegio elettorale a differenza di molti altri e ambizioso quanto basta per desiderare la leadership di quel che resta del suo partito. Ciò che non ha capito, pover’uomo, è che Forza Italia non è mai stato un partito ma, per l’appunto, un comitato elettorale del leader, dunque non è scalabile e la sua battaglia è destinata ad esaurirsi nel nulla. A meno che non esca, ma a quel punto si ritroverebbe senza elettori e finirebbe fagocitato da Renzi da un lato e da Salvini e dalla sua Lega arrembante dall’altro.
La Lega: la grande sfida tra un comunista e un democristiano
Qui la sfida è molto semplice: è fra un comunista, Salvini, e un democristiano doroteo, Tosi. Salvini, infatti, al netto delle sparate folkloristiche e un po’ razziste contro gli immigrati, delle scempiaggini che spara contro l’euro (benché abbia persino un fondamento di ragione) e di certi appoggi chiesti e ottenuti a Casapound, rientra perfettamente nel filone bossiano del leghista lombardo: popolare, alla mano e un tempo elettore del PCI (da qui la famosa definizione dalemiana della Lega “costola della sinistra”). Non a caso, alcune delle sue posizioni (vedasi alla voce riforma Fornero) sono condivise anche dalla Camusso e da una parte della sinistra PD, benché non lo possano ammettere esplicitamente per ovvi motivi. Tosi, al contrario, è un perfetto esponente del leghismo veneto di matrice democristiana: un doroteo allo stato puro, ex rumoriano, ex bisagliano, ex interprete della “minoranza silenziosa” di nixoniana memoria, dunque incline ad allearsi con Passera, per nulla disposto a rompere con Alfano e Berlusconi e ben desideroso di ricostruire una Balena bianca in grado di contendere la guida del governo a Renzi.
Idealmente ha ragione Salvini, politicamente ha ragione Tosi, il quale lo sa benissimo e insiste, cosciente del fatto che il fratello-coltello sia in grado sì di crescere ulteriormente, fino a sfiorare il venti per cento, ma non di costruire un’alternativa credibile al renzismo, dunque destinato comunque a perdere.
Non ci saranno lotte fratricide immediate, Tosi non è stupido e sabato sarà in piazza a Roma al fianco di Salvini e del resto della Lega, come sarà accanto a Zaia alle Regionali, ma la sfida è destinata a riproporsi e Salvini, alla lunga, è destinato a perderla.
Il Movimento 5 Stelle: chi troppo vuole, nulla stringe
Entrati in Parlamento per “aprirlo come una scatoletta di tonno”, i grillini si ritrovano due anni dopo condannati alla sostanziale irrilevanza. Colpa loro, nella maniera più assoluta. Bersani, del resto, gliel’aveva detto: verrà il giorno in cui vi troverete a riflettere sul fatto che “avremmo potuto dire, avremmo potuto fare” e all’epoca il duo tragico composto da Crimi e dalla Lombardi quasi gli rise in faccia. Due anni dopo, con oltre trenta parlamentari in meno e una crisi di credibilità pressoché irreversibile, si trovano a fare i conti col fatto che le personalità migliori sono ormai quasi tutte fuori dal movimento, o perché espulse o perché lo hanno abbandonato spontaneamente, stanche di sopportare un talebanismo inutile e controproducente. Quanto al direttorio lanciato da Grillo, è una mossa della disperazione ma non sta sortendo gli effetti sperati, per il semplice motivo che Di Maio è, a sua volta, un doroteo, Di Battista è bravo ma esagera, Fico non ha certo la stoffa del leader e la Ruocco e Sibilia non hanno semplicemente la stoffa per fare politica. E i Rizzetto, gli Zaccagnini, i Campanella o, per restare all’interno del movimento, una figura come quella dell’emiliana Giulia Sarti non sono mai stati presi colpevolmente in considerazione da un gruppo che, a sua volta, costituisce un valido sfogo per chi vuole sfasciare il sistema ma non certo un’alternativa al renzismo, ergo è la migliore assicurazione sulla vita di cui il Premier disponga.
Scelta Civica: il partito che fu
Con tutto il rispetto per l’audace sottosegretario Zanetti e per i suoi sforzi di mantenere in vita il partito, Scelta Civica, ormai, non esiste più. È servita nel 2013 a impedire tanto a Berlusconi quanto a Bersani di vincere le elezioni e a garantire il prosieguo delle larghe intese ma oggi che c’è Renzi, sufficientemente di destra agli occhi di chi comanda davvero in Europa, il professore bocconiano e la simpatica schiera di “liberisti di sinistra” che s’era portato dietro hanno esaurito la propria funzione, e loro, non essendo scemi, l’hanno capito perfettamente e sono tornati da dove erano venuti: Monti fa il senatore a vita e va in giro per il mondo a dispensare perle di saggezza tecnocratica, i vari Romano, Lanzillotta, Tinagli, Ichino e altri sono rientrati in un PD che avevano abbandonato ai tempi di Bersani ma nel quale oggi si riconoscono pienamente, in quanto per loro il liberismo va benissimo, una sinistra riformista, liberale e attenta ai bisogni degli ultimi no.
La “Cosa rossa”: nascere o non nascere?
In questo caso, parliamo di un partito che ancora non esiste ma potrebbe nascere nei prossimi mesi o anni: tutto dipende da cosa farà Renzi e da come reagirà la minoranza del PD. Diciamo che Landini e Rodotà hanno gettato un seme, parlando per ora di una coalizione sociale in grado di ricalcare le orme della fortunata esperienza greca di Syriza. Diciamo che Civati e Fassina guardano da tempo con interesse a quest’ipotesi, che SEL non vede l’ora di sciogliersi per costruire un soggetto politico più ampio e che, forse, pure Ferrero e gli tsiprasiani di casa nostra si stanno finalmente rendendo conto che da soli e col tre per cento non si va da nessuna parte. Il vero punto interrogativo riguarda Bersani perché una scissione del PD è possibile solo se l’ex segretario decidesse di abbandonare la nave, il che non è alle viste e non sembra essere nelle intenzioni né sue né di Cuperlo né, tanto meno, dell’Area Riformista che fa capo a Roberto Speranza.
Volendo azzardare un’ipotesi, è molto probabile che Renzi, inebriato dalla sicura vittoria alle Regionali, vada avanti come un caterpillar e non dia retta a nessuno né sull’Italicum né sulla riforma del Senato né, meno che mai, sulla riforma della RAI, della Pubblica Amministrazione e della giustizia. L’incognita è la reazione della minoranza dem e su questi punti qualificanti dell’azione di governo si parra la loro nobilitate. Ciò che manca fin d’ora, è bene metterlo in evidenza a scanso di equivoci, è un leader credibile per presentarsi alle elezioni perché Landini è un ottimo sindacalista e potrebbe funzionare a meraviglia nelle piazze ma lui stesso sa di non avere la preparazione culturale e politica di Tsipras, e quest’atto di umiltà la dice lunga sulla saggezza, la lungimiranza e, non sembri eccessivo, la nobiltà d’animo del soggetto in questione.
Un marasma totale ma, quanto meno, adesso ne sappiamo un po’ di più.