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Coscienza e responsabilità

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Gustavo Zagrebelsky

(tempo esecutivo) Viviamo un tempo esecutivo. “L’esecutivo” vorrebbe tutto. “Il legislativo” e “il giudiziario” dovrebbero essere nulla. Se vogliono contare qualcosa, sono d’impiccio. Il loro dovere è di adeguarsi, di allinearsi, di mettersi in riga. L’esecutivo deve “tirare diritto” alla meta, cioè deve “fare”, deve “lavorare” (e più non domandare). Il legislativo e il giudiziario, se non “si adeguano”, costringono a rallentamenti, deviazioni, ripensamenti, fermate: cose che sarebbero normali e necessarie, nel tempo degli equilibri costituzionali; che sono invece anomalie dannose, nel tempo esecutivo.

(tempo non politico) Il tempo esecutivo è anche, e innanzitutto, un tempo in cui la politica è messa in disparte. Chi parla di politica è sospettato d’ideologia. La politica è innanzitutto discussione e scelta dei fini in comune. Detto diversamente, è l’attività sociale che riguarda la visione e la progettazione ideale della vita collettiva cui segue l’azione per realizzarla. Il tempo esecutivo annulla il discorso sui fini e si concentra sui soli mezzi. Concentrarsi sui soli mezzi significa assumere come dato indiscutibile ciò che c’è, l’esistente, il presente. Il fine unico del momento esecutivo è la necessità che obbliga.

Le parole seduttive e di per sé vuote come “innovazione”, “riforme”, “modernizzazione”, “crescita” sono parole non di libertà, ma di necessità, necessità che non lascia spazio alla scelta del perché, ma solo del percome. Gli esecutivi del tempo attuale dove dominano gli interessi finanziari, nelle posizioni-chiave sono occupati da uomini d’affari e di finanza perché essi, con tutti i mezzi, anche con i più amari per i cittadini e per le loro condizioni di vita, devono essere garanti di assetti ed equilibri che s’impongono perentoriamente come se fossero fatalità. Sono anch’essi, a modo loro, vittime della necessità. Le varianti consentite sono nei dettagli marginali, con riguardo cioè ai modi più efficaci per garantire gli assetti e, quando occorre, per determinare chi siano le vittime preferenziali  di questa fatalità.

(tempo tecnico) Il tempo esecutivo e non  politico è anche tempo della tecnica che soppianta la politica. Gli esecutivi “tecnici” che, in forma più o meno esplicita, hanno preso piede negli ultimi decenni non sono anomalie, ma conseguenze funzionali a questo stato di cose che è il mantenimento dello status quo o, come anche è stato detto, la dittatura del presente che si autoriproduce e aspira a crescere sempre di più su se stessa.

La tecnica è in sé, per sua natura, conservatrice. Essa è riparatrice o, eventualmente, amplificatrice dell’esistente, ma non modificatrice o trasformatrice. Quando si richiede l’intervento di un tecnico su un manufatto, ciò è per ripararlo in caso di guasto o per potenziarne le possibilità, non certo per cambiarlo. La stessa cosa è per la tecnica che prende il posto della politica. Infatti, i governi tecnici (e quelli che, in mancanza di discorsi sui fini, dietro le apparenze si riducono a essere tali) sono quelli che affrontano i problemi del reggimento della società con lo sguardo rivolto ai guasti e alle difficoltà che si determinano nei rapporti sociali, agli inceppamenti nei meccanismi, agli scompensi che minano la stabilità del sistema sociale.

Se si pongono questioni di giustizia, non è in vista di riforme sociali, come quelle programmaticamente indicate dalla Costituzione, ma è solo per dare sfogo alla pressione delle ingiustizie quando diventano pericolose per la stabilità degli equilibri che devono essere preservati. Si può facilmente constatare la connessione che naturalmente si crea tra i governi tecnici e l’occultamento della politica. C’è una coerenza, ma una coerenza inquietante.

(nichilismo politico) Lo schiacciamento sulla perpetuazione del presente coincide con l’assenza di discorsi sui fini, condannati a priori come irresponsabili o, nella migliore delle ipotesi, come vaneggiamenti impossibili. Una delle espressioni più in uso e più violentatrici della politica è “non ci sono alternative”. Non ci si accorge che chi soggiace alla forza intimidatrice di quest’espressione si fa sostenitore di nichilismo politico, la forma più perfetta di anti-politica conservatrice: dittatura del presente, cioè conservazione non per adesione a un valore scelto a preferenza di altri, ma per subalternità al fatto stesso dell’esistere. Del nichilismo politico, il corollario è la tecnocrazia: i tecnocrati rifuggono da ogni discorso sui fini che bollano come “ideologia”, come se il loro realismo cinico non sia esso stesso un (altra) ideologia.

(banalità) Il nichilismo è il regno del nulla. Poiché la vita pubblica si alimenta con la “comunicazione”, si comunica il nulla. O, meglio: si comunicano le misure tecniche, e con molta enfasi. Ma le idee politiche svaniscono entro un linguaggio allusivo che non ha nulla di politico, un linguaggio che fa sembrare tutto semplice, sol che i fautori del fare siano lasciati liberi di agire “avanti tutta”, con il turbo, per cambiare verso, per cogliere la volta buona di “fare la propria parte”. Così, in assenza di discorsi effettivamente politici, i contrasti vengono ridotti alla contrapposizione tra il voler fare e il volere impedire di fare, il che è un modo efficace per chiudere l’ingresso nella discussione pubblica della questione dei fini, cioè delle idee propriamente politiche. Il tempo tecnico è il tempo delle banalità politiche e, parallelamente, dei “politici” banali.

(antidemocrazia) La politica, per gli Antichi, era l’arte del buon governo: il buon politico era colui che conosceva le regole pratiche della sua azione, come il buon flautista conosce le regole della musica; il medico, della medicina; il tessitore, della tessitura; il timoniere, della navigazione. La politica, per i Moderni, è un’altra cosa: è innanzitutto confronto e competizione tra visioni diverse della società, cui segue – segue per conseguenza – l’azione tecnico-esecutiva.

Solo questa concezione della politica è compatibile con la visione costituzionale della democrazia, cioè con il pluralismo delle idee e il libero dibattito tra chi se ne fa portatore, l’organizzazione delle opinioni in partiti e movimenti politici, il rispetto dei diritti di tutti e specialmente delle minoranze, le libere elezioni, il confronto tra maggioranza e opposizione, la possibilità riconosciuta all’opposizione di diventare maggioranza secondo regole elettorali imparziali. Questi elementi minimi, costitutivi della democrazia, si svuotano di significato, quando il governo delle società è conservazione attraverso misure tecniche.

Le forme della democrazia possono anche non essere eliminate ma, allora, la sostanza si restringe e rinsecchisce, come un guscio svuotato. Le idee generali e i progetti si inaridiscono; i partiti si cristallizzano attorno alle loro oligarchie interessate principalmente a insediarsi nel potere senza sapere a quale scopo diverso da potere stesso, in ciò assomigliandosi sempre di più; il conformismo politico alimenta il cosiddetto pensiero unico e il pensiero unico alimenta a sua volta il conformismo politico; le alternative politiche diventano illusorie perché i governi operano a sovranità limitata e agiscono, come s’è detto, “col pilota automatico”. La competizione tra i partiti solo illusoriamente ha una posta politica. In realtà si trasforma in lotta per ottenere posti.

La capacità di rappresentare la società si riduce, mentre il distacco tra i cittadini e le loro condizioni di vita, da un lato, e le istituzioni dall’altro, aumentano. Il termometro di questa malattia della democrazia è il discredito che colpisce le forze politiche e il crescente astensionismo elettorale. Il difetto di rappresentanza alimenta un sordo rancore di cui si farebbe molto male a sottovalutare il potenziale antidemocratico.

(dittatura del presente) Quando si denuncia il deficit di democrazia si vuole riassumere il rattrappimento della vita pubblica sull’esistente, presentato come unica possibilità, cioè – per usare uno slogan – come “dittatura del presente”. Per usare un terribile linguaggio filosofico, l’ente viene presentato e imposto come se fosse l’essere, e l’essere è ciò che necessariamente è. Tutto il resto, tutto ciò che non vi rientra, nel caso migliore è bollato come futilità e, in quello peggiore, impedimento o sabotaggio.

Finché si resta nella futilità, chi governa nella dimensione dell’essere può limitarsi all’indifferenza o al dileggio nei confronti dei non allineati; ma, quando si trova di fronte a difficoltà, il dileggio si trasforma in misure repressive a intensità variabile: il dileggio si trasforma in annientamento delle opinioni nel dibattito pubblico, fino – extrema ratio che, come possibilità, si erge sempre minacciosa sullo sfondo – all’uso della forza contro i portatori del dissenso. Tutto questo significa “dittatura del presente”: un significato oggettivo, che prescinde dalla buona o cattiva volontà di chi occupa posti esecutivi. Nella dittatura del presente sono più numerose le passive e inconsapevoli comparse che non gli attivi e consapevoli protagonisti.

(livellamento e sincronizzazione) Il tempo esecutivo è incompatibile con il dissenso operante. I tecnici sono sicuri del fatto loro; gli altri, che tecnici non sono, sembra che non sappiano quello che vogliono. Per questo, nel governo esecutivo i diversi soggetti della vita pubblica devono progressivamente livellarsi e sincronizzarsi. In una parola: devono egualizzarsi e mettersi in linea, la “linea nazionale”. Sentiamo parlare di “partito della Nazione”, c’è la tentazione di voler essere il premier (non di un governo, d’una maggioranza, ma) della Nazione al di là di destra e sinistra, abbiamo la Tv della Nazione, avremo presto, forse, l’Editore nazionale, ecc.

Ma, il luogo istituzionale in cui consenso e dissenso politico e sociale dovrebbero esprimersi con compiutezza è un parlamento risultante da libere elezioni. Questo dovrebbe essere il punto di riferimento della democrazia, la sede che al massimo livello rappresenta – come dicevano i costituzionalisti d’un tempo – la coscienza civile della Nazione tutta intera, non però come un intero, ma come componenti di un “intero confronto” tra loro. Un tale parlamento sarebbe precisamente il primo ostacolo che incontra il governo esecutivo. Questa spiega perché lo si umilî spesso con procedure del tipo “prendere o lasciare” e perché coloro – deputati e senatori – che collaborano al progetto del governo esecutivo si umilino essi stessi accettando senza lamentarsi, o con deboli lamenti, la minaccia dello scioglimento che viene ventilata, come se fosse prerogativa del presidente del Consiglio e non del presidente della Repubblica. Sotto quest’aspetto dovrebbero principalmente valutarsi le riforme istituzionali: aumentano o diminuiscono la capacità rappresentativa del Parlamento?

(vincitore e vinti) Le espressioni verbali che usiamo sono spesso rivelatrici. Della legge elettorale si dice ch’essa deve consentire ai cittadini di conoscere il vincitore “la sera stessa”.  Ma la politica democratica non conosce vincitori e vinti. Dalle elezioni risulterà il partito che è più forte degli altri numericamente, ma non certo il partito che, per i successivi cinque anni della legislatura, “ha sempre ragione”. Non ci si rende conto di che cosa trascina con sé questa espressione, tanto disinvoltamente usata nel dibattito politico: implica disprezzo per i partiti minori che formano le opposizioni e l’insofferenza verso i poteri di controllo, la magistratura in primo luogo che, a causa dei poteri che in forza della legalità le sono attribuiti, costituisce un impaccio non tollerabile per “il vincitore”.

Nella democrazia costituzionale – l’opposto della tirannia della maggioranza – non c’è posto per strappi e “aventini”. Ma il partito che ha ottenuto il maggior successo nelle elezioni, proprio per questa ragione, ha un onere particolare: governare senza provocare fratture e strappi, onde chi risulta soccombente non abbia motivo di ritenersi vinto, annientato, e non debba considerare la sua presenza nelle istituzioni ormai superflua. Il Parlamento mezzo-vuoto dovrebbe rappresentare un grave problema democratico per tutti, a incominciare dalla maggioranza. Sotto questo profilo dovrebbero principalmente valutarsi la legge elettorale in gestazione e le procedure decisionali parlamentari che si stanno riscrivendo: aumentano la forza centripeta delle istituzioni o aumentano le tentazioni centrifughe?

(deriva autoritaria?) Quando si guardano i cambiamenti istituzionali in corso d’approvazione nel loro complesso – non questa o quest’altra disposizione presa a sé stante – è difficile non vedere, a meno di non voler vedere, il quadro: un sistema elettorale che, tramite il premio di maggioranza e, ancor di più, con il ballottaggio, comprime la rappresentanza e schiaccia le minoranze, nella logica vincitore-vinti; una sola camera con poteri politici pieni e con procedimenti dominati dall’esecutivo; un’attività legislativa in cui la deliberazione rischia in ogni momento di ridursi a interinazione veloce delle proposte governative; controllo maggioritario, rafforzato dal premio di maggioranza, delle nomine di garanzia (presidente della Repubblica, giudici costituzionali, membri del CSM, presidente della Camera, e successive decisioni a questi attribuite); minaccia di scioglimento della Camera in caso di dissenso dal Governo: tutte questioni in ballo nel processi di riforma in corso, che restano in piedi anche nelle nuove versioni dei testi in discussione, pur emendati rispetto agli originari.

Soprattutto, influisce sul giudizio della situazione il silenzio totale su due punti cruciali: la democrazia nei partiti e la vitalità dell’informazione. Qui sta la materia prima della democrazia e se la materia è corrotta, quale che sia il manufatto (cioè l’impalcatura istituzionale) il risultato non potrà non portare i segni della corruzione. Il guscio sarà svuotato della sostanza. Anzi, servirà a mascherare lo svuotamento.

(che cosa significa difendere la Costituzione?) Non si tratta di difendere un’astratta intoccabilità della Costituzione, la quale prevede la possibilità e le procedure per la propria stessa riforma. La Costituzione non è un totem. Nemmeno è “la costituzione più bella del mondo”. Semplicemente essa delinea una forma politica che si basa sulla democrazia di partecipazione, dove le decisioni collettive procedono attraverso contributi dal basso, cioè  dai bisogni sociali, dalle convinzioni della giustizia e della libertà che si formano nella società, si organizzano in forme associative e si esprimono negli organi rappresentativi e si sintetizzano e si traducono in pratica attraverso l’opera del governo.

Questa è la “piramide democratica” di cui già si parlava all’epoca dell’Assemblea costituente. Difendere la Costituzione è vigilare affinché la piramide non si rovesci e le decisioni collettive non procedano dall’alto e s’impongano non in base alla partecipazione e alla deliberazione conseguente ma, per esclusione e per autorità, su una società lobotomizzata, rassegnata, passiva. Detto in altri termini, difendere il nucleo della Costituzione è difendere la politica come materia nelle mani dei cittadini e delle loro libere manifestazioni sociali dall’espropriazione da parte delle oligarchie che facilmente e naturalmente si raccolgono attorno agli esecutivi. Onde, per facile deduzione, può dirsi che la difesa della Costituzione equivale alla difesa della democrazia contro le oligarchie. E, poiché le oligarchie odierne albergano soprattutto nell’economia finanziarizzata, difendere la Costituzione significa difendere la politica dalla soverchiante presenza degli interessi economici.

Infine: poiché l’economia al servizio della finanza ha dimensione globale, difendere la Costituzione significa anche difendere l’autonomia politica della collettività nazionale, senza la quale democrazia è parola vuota. In tal modo, il cerchio si chiude: dalla democrazia alla democrazia. Si dice, tuttavia: c’è pur bisogno di governo. Le democrazie muoiono per impotenza, quando non c’è governo. Rispondiamo: è così! Purché si tratti veramente di governo, ma il governo è politica e, finché prevale non la politica ma l’esecutivo, gonfiare l’esecutivo significa sgonfiare la politica. Per questo, occorre rinforzare le radici e non affidarsi alle frasche. Solo le radici rivitalizzate sono la condizione della politica e della democrazia.

(i compiti di libertà e di giustizia) La nostra associazione è nata tredici anni fa con il compito di vigilare sui comportamenti della “classe politica”, per custodirne i requisiti minimi d’integrità e di legalità, in una fase della nostra storia in cui il degrado sembrava, ed era, refrattario a ogni limite. Si trattava di difendere la dignità della politica, un compito che non può certo dirsi diventato inattuale. Questo compito è, dunque, ancora il nostro.

Ma, oggi, quando la politica entra in una zona d’ombra e con essa la democrazia, il compito si allarga e diventa più impegnativo. Si tratta di contribuire a elaborare idee, proposte e rivendicazioni propriamente politiche, cioè di tentare di liberarci dalla cappa che, sulla vita pubblica, stende la dittatura del presente, tramite uno strisciante conformismo che equivale a una loi du silence. Per questo, occorre lavorare con le forze culturali e sociali che, avendo le radici nelle condizioni di vita quotidiane dei più, sanno o cercano di sapere quali sono le domande che chiedono di esprimersi in politiche conseguenti. Questa è la base della Costituzione che deve essere difesa.

Questo è l’onere al quale non possono sfuggire coloro che credono nella democrazia. Questo, viceversa, è ciò che temono coloro che occupano il vertice della piramide e da lì guardano con sospetto ciò che pare sfuggire al proprio controllo. La società civile viene chiamata in causa: non i magnati che frequentano i cosiddetti salotti del potere, dove già s’incontrano senza difficoltà quanti dispongono del potere in tutte le sue forme: economico, culturale, statale. Costoro non hanno affatto bisogno d’incrementare la loro posizione nelle istituzioni. La “nostra” società civile è composta da singoli e associazioni che dedicano energie, tempo, capacità professionali e denari propri in tutti i luoghi della società che avrebbero bisogno di politiche: i luoghi della povertà e della disperazione, della mancanza di lavoro e di possibilità d’impresa, dell’emarginazione e della discriminazione, della malattia, dell’handicap, degli anziani senza sostegno, delle famiglie dove esistono malati di mente e sono lasciate a se stesse, del degrado ambientale.

Questa nostra società civile è ricca di energie e in questa ricchezza sta il serbatoio da cui attingere per la rianimazione della politica a partire dalle dimensioni locali, più sensibili alla concretezza dei problemi sociali, purché si riesca a coordinarle in movimenti capaci di convertire l’azione quotidiana dall’ambito limitato a quello generale, per il modellamento democratico della società. Programma impossibile? Può sembrare così, anche perché oggi le politiche nazionali si scontrano con i vincoli che vengono dalle istituzioni sovranazionali di cui facciamo parte, anch’esse essenzialmente non-politiche. Ancora una volta viene in aiuto la Costituzione. Essa ammette, sì, le limitazioni alla sovranità nazionale, ma solo in condizioni di parità con gli altri Stati e se servono ad assicurare la pace e la giustizia tra le Nazioni. Possiamo dire questo dell’Unione Europea, così com’essa si presenta nei suoi odierni sviluppi? Di fronte all’enormità del compito e prima di dare risposte rinunciatarie, si veda se è possibile realizzare un’unità d’intenti da spendere oltre la dimensione particolare delle formazioni sociali in cui ciascuno di noi separatamente opera, per prolungarla politicamente e diffonderne l’influenza.

(conclusione) Chi ha scritto queste considerazioni – che si sono volute esprimere nel modo più chiaro e categorico possibile, perché solo così l’onesta discussione è possibile –  e coloro che eventualmente ne condividono il contenuto sono perfettamente consapevoli di generare fastidio. La loro colpa è di essere Cassandre impenitenti, incontentabili pessimisti, conservatori vecchi e pregiudizialmente nemici del nuovo. Coloro che provano questo fastidio appartengono a generi diversi. Vi sono quelli che non credono nella democrazia, preferendo qualche forma di potere forte – a condizione però, sia chiaro – ch’esso sia dalla loro parte. A questi, che credono sia arrivata per loro “la volta buona”, non c’è nulla da dire. Poi, vi sono coloro che dicono d’essere dalla parte della democrazia, ma negano che sia in corso una deriva della democrazia e pensano che non c’è nulla per cui non stare tranquilli. A questi, si può dire ch’essi non vogliono vedere la semplice realtà che a noi appare evidente per se stessa. Vi sono poi coloro che ritengono che, per far uscire il nostro Paese dallo stallo in cui si trova e perfino per salvare la democrazia dal suicidio per impotenza, si debbano accettare rinunce, cioè riforme del tipo di quelle in cantiere. A questi, sommessamente vorremmo dire che la prima condizione per salvare la democrazia è la riforma degli attori politici, non la riforma delle istituzioni o, almeno la riforma degli uni e delle altre insieme. Occuparsi solo delle seconde è sospetto.

Le riforme ambite da quella che si chiama classe politica servono, infatti, agli adeguamenti alle sue esigenze. Non sono riforme, ma accomodamenti perseguiti con impazienza da una classe politica che avverte drammaticamente il proprio declino e cerca contraddittoriamente di sopravvivere insistendo sulle sue cause. Si parla (impropriamente) di “governabilità”, ma si tratta d’altro, di rafforzamento della presa sul potere. Noi vorremmo chiedere se non pensano d’essere proprio loro, in misura rilevante, la causa dei nostri problemi. Se è così, le riforme decisioniste – le “blindature” – aggravano, non risolvono. Noi, sommessamente ma tenacemente continuiamo a pensare, con i nostri Costituenti, che la buona politica richieda più, non meno, democrazia, cioè più partecipazione e meno oligarchia, più aperture e meno chiusure ai bisogni sociali: i bisogni di chi meno conta nella società e perciò più ha diritto di contare nelle istituzioni. Altro che rami alti: bisogna lavorare per rinforzare le radici.

Da libertaegiustizia.it


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