Il racconto di Ahmed Kashbur cooperante del Cesvi in Libia. Scuole trasformate in dormitorio, 7 mila persone senza casa, combattimenti in 3 quartieri. È il risultato delle battaglie tra esercito e jihadisti. Alla disperazione della popolazione si aggiunge il dramma dei migranti
BENGASI (Libia) – Il suono di una sirena interrompe per un attimo la conversazione telefonica con Ahmed, pochi istanti di silenzio, poi il suo respiro riprende e così il racconto su ciò che sta succedendo a Bengasi, in Libia. “La vita da queste parti è un bene da tenersi ben stretto”, sussurra. Da mesi ormai i combattimenti sono concentrati in 3 quartieri della città sotto il controllo delle milizie estremiste. Ahmed Kashbur ha 51 anni è libico e da 4 anni lavora come operatore per il Cesvi, una ong italiana che si occupa di cooperazione e sviluppo delle popolazioni bisognose in diversi Paesi del mondo e che dal 2011 opera in Libia per portare aiuti umanitari, soprattutto con operatori locali. Attualmente, Ahmed è il coordinatore del progetto della ong nella città libica, e insieme a un gruppo di 16 cooperanti garantisce assistenza medica e finanziaria alla popolazione e ai migranti in difficoltà che arrivano a Bengasi da altri Paesi africani. “Ci sono più di 7 mila sfollati che a causa dei combattimenti hanno dovuto lasciare le proprie abitazioni, sono circa 500 famiglie – racconta Ahmed –. Per ora sono accampate in una quarantina di scuole che sono state riadattate a centri d’accoglienza”.
L’esercito del governo di Tobruk il 15 ottobre aveva lanciato un’offensiva per riprendere il possesso della città, dopo che i jihadisti ne avevano occupato l’80 per cento e messo in fuga i militari. Il risultato delle numerose battaglie è che oggi a Bengasi si vedono case e palazzi distrutti. “Durante la giornata capita che vada via la corrente elettrica per molte ore e questo genera il caos – continua Ahmed –. Si bloccano i forni, le pompe di benzina e altre attività, creando lunghe file in strada davanti ai negozi”. Da quando sono cominciati gli scontri molti luoghi pubblici sono stati chiusi e le persone tendono a limitare i loro spostamenti al necessario. “Hanno chiuso tutte le scuole per evitare che potesse accadere qualcosa ai bambini – dice Ahmed –. I miei figli trascorrono la maggior parte del tempo in casa. Questo non gli fa bene perché vivono con la paura”. Ad aumentare le preoccupazioni e i timori ci si mettono i continui rumori dei colpi di mortai o dei bombardamenti dell’aviazione sui magazzini di armi delle milizie. “Oggi si parla dell’arrivo dell’Isis – prosegue Ahmed – ma la verità è che qui gli estremisti c’erano già, solo che prima non facevano riferimento allo Stato islamico e adesso hanno iniziato a farlo. E poi non tutti quelli che combattono sono legati alla jihad molte fazioni lo fanno per accaparrarsi il controllo sui profitti legati al petrolio”.
Il dramma di trovarsi a Bengasi non riguarda solo i locali, a subire privazioni, maltrattamenti e sfruttamento sono anche le migliaia di profughi che ogni giorno arrivano da altri Paesi dell’Africa per potersi imbarcare su una nave e attraversare il Mediterraneo. Una volta qui, però, si ritrovano a vivere gli stessi incubi che si erano lasciati alle spalle. I pericoli, per questo flusso incessante di persone in cerca di un futuro migliore, non sono solo all’arrivo o alla partenza ma si annidano dietro ogni duna e villaggio che attraversano durante il loro cammino. Con l’aumentare delle tensioni nel Paese e le bande di mercenari che scorrazzano nel deserto, chi compie il viaggio spesso lo conclude stremato, mutilato a causa d’incidenti lungo il tragitto o non lo finisce affatto, perché catturato e usato come schiavo dai miliziani. Sono le scene e i racconti di guerra che vede e ascolta ogni giorno Ahmed, che ha deciso di combattere questo conflitto come operatore umanitario rimanendo nel suo Paese insieme alla famiglia. Tutti i giorni insieme ai suoi colleghi s’incontrano nella casa adibita a quartier generale e da lì, si muovono tra le strade della città alla ricerca di profughi da soccorrere. Vanno nei luoghi in cui molti ragazzi lavorano o si ritrovano in attesa di trovare un impiego, parlano con loro, si fanno raccontare le loro storie, il motivo della loro partenza e dove vogliono andare. Cercano di fornirgli informazioni, lasciano i loro contatti e li esortano a rivolgersi a loro per qualsiasi cosa. “Molti profughi che arrivano a Bengasi vanno a vivere in edifici abbandonati vicino alla zona industriale dismessa – spiega Ahmed – da qui si spostano verso il mercato ortofrutticolo in cerca di lavoro”. Qui si occupano della raccolta della frutta, del trasporto di cassette o fanno le pulizie nelle abitazioni dei loro datori di lavoro. Tutto per raccogliere il denaro necessario a comprare un biglietto per il viaggio su una delle tante “carrette del mare”. Se questo è il destino che attende chi riesce a sopravvivere al deserto, c’è chi da quell’odissea arriva in condizioni di salute precarie e inadatte a svolgere qualsiasi tipo di lavoro. “Ci sono persone che a causa di incidenti occorsi loro durante il viaggio arrivano paralizzate o menomate – continua Ahmed – Noi cerchiamo di aiutarle come possiamo, inserendole in un percorso d’assistenza. Dopo il ricovero in ospedale o un intervento cerchiamo loro una sistemazione, da connazionali che abitano qui o in qualche centro per disabili, facendoci carico delle spese necessarie per cure e visite mediche”.
Da un po’ di tempo però sempre meno persone riescono ad arrivare in città. A causa della guerra molti migranti restano bloccati nel sud della Libia. “Questo ha fatto abbassare il prezzo per pagarsi il viaggio – continua Ahmed – e quelli che si trovavano già qui hanno deciso di partire”. C’è chi rischia la traversata da Bengasi, un incubo di 5 giorni in preda al freddo e alle onde. Mentre altri attraversano la Cirenaica in direzione di Tripoli, da lì il viaggio verso Lampedusa è più corto e in 12 ore puoi sperare di arrivare sulle coste italiane. “Di solito chi viene in Libia lo fa per partire e aspetta i mesi di luglio o agosto – spiega Ahmed –. Ma con l’inasprirsi della guerra in tanti hanno deciso di rischiare e imbarcarsi subito”. Una tragedia a cui l’Occidente assiste come spettatore incurante di quelle che sono le miserie e le disgrazie dei popoli della sponda sud del Mediterraneo.
La voce di Ahmed si fa sempre più sottile, la connessione comincia a saltare e le sue parole si confondono somigliando sempre più a un rumore metallico. In un ultimo strepito si sente la risata di bambino, è uno dei cinque figli di Ahmed che anche oggi, come ormai da troppo tempo, è rimasto in casa a giocare perché la sua scuola è diventata un dormitorio per chi non ha più una casa. (Dino Collazzo)