Trentacinque anni fa, il 12 febbraio 1980 venne ucciso per mano delle Brigate Rosse Vittorio Bachelet. E’ stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, esponente politico e docente universitario. E proprio al termine di una lezione, venne assassinato con sette colpi di pistola sulla scalinata della facoltà di Scienze politiche della Sapienza mentre dialogava con la sua assistente, una giovane Rosy Bindi. “Un padre dolce” lo ricorda il figlio Giovanni, anche lui docente universitario e una legislatura da deputato. “Era dolce e sapeva ascoltare. Di solito queste sono caratteristiche delle madri ma in questo caso era il contrario. Sarà perché mio padre era spesso fuori casa ed era mia madre che doveva far rispettare legge e ordine domestico”.
Lei aveva ventiquattro anni quando suo padre subì l’attentato. Che ricordo ha di quel giorno?
Un ricordo nitido, ovviamente come succede per tutti i fatti, belli o brutti che ti segnano la vita. Io ero in America per il mio primo lavoro a cui ero arrivato grazie a una borsa di studio. In America erano le sei di mattina quando sono stato avvisato. Mia madre e mia sorella non volevano dirmelo per telefono perché preferivano che io lo sapessi da qualcuno in carne ed ossa e così lo comunicarono a due miei colleghi che, all’alba, vennero da me per darmi la triste notizia. Con entrambi siano ancora molto amici, certe cose non possono che legarti per tutta la vita. Sull’aereo per rientrare a Roma mi voltai e vidi il mio professore di fisica (Nicola Cabibbo, a lungo presidente della Pontificia Accademia delle Scienze, ndr ) e mi ha fatto compagna per tutto il viaggio. Una sorta di angelo custode che mi ha aiutato a distrarmi un pò.
Suo padre temeva di essere nel mirino delle Brigate Rosse?
Per noi della famiglia non c’era nessun evidenza specifica di pericolo. Ma è chiaro che in quel momento c’era un timore generale piuttosto fondato. Chiunque facesse il magistrato con qualche responsabilità, il giornalista o il sindacalista, chiunque si esponesse a vario titolo per la difesa delle istituzioni era a rischio. Lo era Guido Rossa che denunciava i colleghi di fabbrica perché fiancheggiatori delle Br, o il magistrato Francesco Coco che rifiutò di accettare la trattativa per la liberazione di un ostaggio, o Walter Tobagi giornalista del Corriere in prima linea sulle vicende degli anni di piombo.
La definizione “Anni di piombo” non fu certo una forzatura linguistica. Gli attentati erano quasi all’ordine del giorno.
Praticamente una volta a settimana qualcuno veniva ammazzato con motivazioni di vario tipo ma tutte riconducibili al terrorismo politico. Tra l’altro qualche mese prima che io partissi i Nar, i Nuclei Armati Rivoluzionari, organizzazione di colore politico opposto a quello delle Br, avevano messo sotto un’automobile dalle parti del Csm alcuni candelotti di dinamite. Che per fortuna non erano stati innescati bene e quindi non esplosero.
Dopo l’assassinio di Aldo Moro proposero la scorta a molte persone cosiddette a rischio tra cui suo padre. Che però la rifiutò
Disse che non voleva cadere nel gioco della militarizzazione del territorio e non voleva che si percepisse una dichiarazione di guerra contro qualcuno…
Vittorio Bachelet era anche un uomo molto appassionato di politica
Sì, la politica lo appassionava ma non ha mai fatto “vita di partito”. Era un grande amico di Zaccagnini e di Moro e si candidò con la Dc al Comune di Roma proprio perché fu Zaccagnini a chiederglielo. Più per dovere che per piacere.
Una passione che le ha trasmesso
Anche io quando mi sono candidato nelle file del Pd, su proposta di Rosy Bindi, l’ho fatto più che altro per senso del dovere. Perché ritengo che tutti i cittadini debbano sentirsi coinvolti. Ma dopo una legislatura ho deciso di tornare all’università. Nonostante la diversità nel percorso di studi tra me e mio padre penso che sia proprio il piacere di insegnare che ci accomuna. In fondo contribuire a formare delle coscienze è un atto fortemente politico.
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Intervista di Stefano Corradino pubblicata sul Radiocorriere Tv