Anche sul portone principale della mia università, a pochi passi dai Giardini del Lussemburgo, è comparso il segnale che, dal giorno dell’attentato a Charlie Hebdo, marca l’ingresso di tutti gli edifici più importanti e più affollati di Parigi. Un triangolo bianco e rosso, con uno spesso contorno nero. È il simbolo del Vigipirate, un dispositivo di prevenzione contro il rischio di attentati. A seconda del grado d’allerta rilevato dagli addetti ai lavori, vengono predisposte determinate misure di sicurezza: questo è tutto quello che sono riuscito a capire del funzionamento del Vigipirate, in questi giorni. E certo non mi sono state di grande aiuto le spiegazioni che i miei amici parigini mi hanno fornito. «Praticamente – mi ha spiegato un mio coinquilino – quando vedi davanti alle porte di chiese, scuole, uffici pubblici, delle guardie che controllano chi entra e chi esce, ecco, quello è il livello di allerta massimo».
A distanza di una settimana da quel 7 gennaio che ha sconvolto la Francia, però, posso testimoniare che il Vigipirate è, per la maggior parte delle persone con cui mi ritrovo a parlarne, quello che tecnicamente noi Italiani definiamo una rogna. Ogni volta che entri in un palazzo controllato – sia che a piantonarlo siano dei gendarmi armati di mitra, sia che si tratti di semplici portieri con una fascia fluorescente intorno al braccio con su scritto “sécurité” – devi mostrare un documento di riconoscimento. Nella residenza studentesca dove vivo, dal giorno dell’attentato il portone nell’atrio è rimasto chiuso, e per aprirlo bisogna inserire la chiave elettronica nell’apposito lettore. «Al fine di rendere possibile l’identificazione di chi entra nell’edificio», c’è scritto sul cartello. Ma per noi che ci viviamo, significa soprattutto dover poggiare a terra le buste della spesa o gli zaini, recuperare la chiave, inserirla nel lettore ecc. Uno di quei gesti non propriamente impossibili da realizzare: eppure, appunto, una rogna.
Il fatto è che, in realtà, nessuno sembra crederci troppo che proprio attraverso questi metodi si riduca davvero il rischio degli attentati. Ed è da qui che nasce una certa insofferenza nei confronti dell’inutile macchinosità di alcune procedure. Dei tre portoni d’ingresso della mia università, ad esempio, due sono stati chiusi. Per entrare bisogna mostrare ad un non meglio identificato custode la propria carte étudiant; per uscire, si è costretti a passare per la stessa porta, dove la gente sta in fila per i controlli. Inevitabilmente si creano ingorghi, si finisce con lo spintonarsi e col mandarsi reciprocamente a quel paese. È incredibile come il minimo cambiamento imposto alle nostre più banali abitudini riesca a risultarci terribilmente irritante.
Anche gli stessi controllori, in ogni caso, col passare dei giorni cominciano ad essere meno convinti dell’utilità del loro ruolo. Io oggi, infatti, ho dimenticato a casa la mia carte étudiant. Me ne accorgo quando ormai sono a pochi centimetri dagli occhi vigili del portiere, che mi scrutano bonari. «Sono desolato – mi giustifico, estraendo dallo zaino una cartellina col logo dell’università, e sperando che basti come distintivo – ho dimenticato la mia …». Il portiere mi interrompe con un gesto del braccio, che si apre a indicarmi l’entrata. «Mi raccomando, la porti sempre con sé», si limita a ricordarmi.
Nel cortile dell’università, ho un appuntamento coi miei compagni di corso, quasi tutti parigini, più qualche lionese. È il primo giorno che ci ritroviamo tutti insieme, dopo le vacanze di Natale, e inevitabilmente il discorso precipita subito sugli attentati della settimana scorsa. Contrariamente a quanto mi aspettassi, nessuno protesta contro le inefficienze del sistema d’intelligence francese, che pure sono state denunciate dai media nazionali. Si percepisce piuttosto un certo sgomento, di chi è convinto che, per la facilità con cui sono successi, certi fatti possono succedere di nuovo, in qualsiasi momento.
«Vivevano a Parigi, erano Francesi a tutti gli effetti. Come si può pensare – afferma Josephine, ventitreenne appassionata di Balzac – di controllare tutti i musulmani sospettati di fanatismo?».
«Il problema – continua Marie, venticinque anni – è che non è finita qui. Evitano di dircelo per non diffondere il panico, ma è evidente che non è finita qui».
Seduti sulle panchine del cortile, conduciamo un discorso che conosce attimi di intenso fervore e brusche, lunghissime interruzioni.
«Chi c’è andato alla marcia di domenica?» – domando.
Quasi tutti fanno un cenno di conferma.
«Ho trovato bellissimo – spiega Josephine – il modo in cui abbiamo saputo rispondere, come popolo. Temevo che si sarebbe fatto appello, per ritrovare una forma di unità, ad argomenti ambigui e pericolosi, come l’identità, la sicurezza, l’ordine. E invece abbiamo ribadito i valori della libertà, della repubblica».
«Hai ragione – conferma Hortense, che parla con una voce ferma e profonda – è stata una manifestazione nazionale, ma non nazionalista».
Clément, dopo qualche secondo di nervoso scuotere la testa, con un gesto perentorio si alza in piedi, quasi a rivendicare il centro della scena.
«A me è sembrata una mezza pagliacciata – esclama, lasciando parecchi di noi piuttosto interdetti – Non capisco perché, per ricordarmi dell’importanza di certi valori, qualcuno deve arrivare a fare una strage a pochi metri da casa mia. Siamo un paese che si affretta a dichiararsi civile e democratico, e poi votiamo in massa per il Front National, che non mi sembra esattamente l’apoteosi della civiltà e della democrazia. Marcia per la libertà … ma di quale libertà stiamo parlando? Io non sono affatto sicuro che i capi di stato che marciavano alla testa del corteo siano dei paladini della libertà. Tutt’altro».
Appena Clément smette di parlare, accendendosi una sigaretta, temo che la sua invettiva, scomposta ma senz’altro appassionata, inneschi reazioni veementi. E invece il discorso, di nuovo, si spegne.
Dopo qualche secondo, davanti a noi passa un ragazzo con in mano La croix, un giornale cattolico, sulla cui prima pagina si intravede il titolo dell’editoriale: “Libertà d’espressione: fino a che punto?”.
È ancora Clément a intervenire:
«A me quest’idea che bisogna mettere dei limiti alla libertà d’espressione mi dà davvero sui nervi. O esiste, questa libertà, oppure no».
«Tu credi? – ribatte Marie – A me sembra che sia proprio sbagliato l’idea di parlare di limite. Il problema non è dire se si esagera o no, non è una questione di soglie da non superare. Però è doveroso, quando si sa di rivolgersi a milioni di persone, chiedersi quale possa essere l’effetto delle nostre parole. La satira è intelligente se, oltre a far ridere, propone anche una lettura critica e inaspettata di certi fatti. Ecco, a me non sembra che quella di Charlie Hebdo fosse una satira molto acuta, e non a caso scadeva spesso nella volgarità gratuita».
«A me non faceva neppure ridere» – precisa Hortense.
Mi sento inspiegabilmente sollevato rispetto alla mia quasi totale ignoranza su Charlie Hebdo, nel constatare che, anche tra i miei coetanei francesi, il settimanale non era né così conosciuto né così apprezzato come sui giornali italiani, dal giorno seguente all’attentato, tutti si sono affrettati a dichiarare.
L’ennesima pausa, in cui restiamo tutti a fissarci le punte delle scarpe nell’attesa che sia qualcun altro a parlare, ci convince che è arrivato il momento di salutarci. Torno a casa in bici, nonostante il vento freddo che penetra nei guanti e intirizzisce le mani. Nell’atrio dello studentato, il portone è chiuso. Mentre prendo la chiave elettronica dal portafoglio, mi volto verso la guardiola, dove Jacques, il portiere, mi riconosce. Sorride, alza il braccio e mi saluta da dietro il vetro.