da Parigi – Nel ristorante “Chez H’Anna”, al centro del quartiere del Marais, non c’è quasi nessuno. Un cameriere ci spinge dentro, con una cordialità molto affettata, mentre noi stiamo ancora valutando il menu e i prezzi esposti fuori dalla porta: «I migliori felafel di Parigi», ci assicura. Fa un freddo terribile, non abbiamo ancora pranzato nonostante siano quasi le quattro del pomeriggio e, trovandoci a Parigi, l’idea di poter mangiare con meno di quindici euro stando seduti è di per sé più che sufficiente per convincerci a entrare.
È il 7 gennaio, e i fratelli Kouachi hanno portato a termine la loro strage da oltre quattro ore. Io sono in giro per Parigi dal mattino, insieme ad alcuni miei amici italiani che sono venuti a trovarmi. E nulla, da quattro ore a questa parte, ci è sembrato tradire panico o apprensione.
Ci sediamo in un tavolo del ristorante, e finalmente ci rendiamo conto di cosa era accaduto. O meglio, ci rendiamo conto che qualcosa di tremendamente grave doveva essere accaduto, perché i nostri cellulari, fino ad ora lasciati abbandonati in fondo ai nostri zaini, sono pieni di messaggi allarmati di amici e familiari, che però continuano soltanto a chiederci confusamente se stiamo bene, se siamo al sicuro, se abbiamo «saputo della strage», se abbiamo «visto cosa è successo». Mettendo insieme i vari spezzoni di informazione contenuti nelle decine di messaggi ricevuti da ognuno di noi, riusciamo a capire, più o meno, che la sede di un giornale è stata assaltata da terroristi islamici, e che una decina di persone sono morte.
Guardiamo la televisione del ristorante, che però trasmette dei video musicali. Chiediamo delucidazioni alla cameriera, che però minimizza. «Tranquilli, nulla di grave. Ancora non si hanno notizie definitive, ma non c’è motivo di preoccuparsi. Siete pronti per ordinare?».
Su internet ci facciamo un’idea più chiara. E soprattutto notiamo, con un indefinibile tremore, che nel momento in cui i giornalisti di Charlie Hebdo venivano massacrati, noi ci trovavamo a Place des Vosges, a poche decine di metri, in linea d’aria, dalla sede del settimanale in rue Nicolas-Appert. Eppure, non una sirena, non un urlo. Nessun volto, dei tanti incrociati in quelle quattro ore passate a camminare tra Bastille e Beaubourg, nelle vie intricate del Marais, ci ha rivelato il minimo sgomento.
«Possibile che non vi state accorgendo di niente? Tutto il mondo ha gli occhi puntati su quello che accade intorno a voi, e voi non vi state accorgendo di niente?», protesta per telefono mia sorella, alla quale cerco di spiegare che tutto, intorno a noi, sembra assolutamente tranquillo. «Ma dove diavolo siete?», insiste lei. E qui mi rendo conto che è meglio evitare di dirle dove siamo davvero, e non soltanto a causa della vicinanza al luogo della strage: trovarsi in un ristorante al centro del quartiere ebraico, subito dopo un attentato che – come è consuetudine – si definisce “di matrice islamica”, potrebbe non apparire la scelta migliore.
Usciamo dal ristorante, indecisi sul da farsi. Dopo un breve conciliabolo, decidiamo di camminare verso le Tuileries, e cercare di capire se è il caso di tornare a casa e barricarsi dentro per il resto della serata. Sul lungosenna, ogni cosa sembra svolgersi secondo i soliti, insensati ritmi frenetici: traffico, luci, rumori. I negozi sono tutti aperti, le vetrine illuminate: quasi tutte conservano ancora gli addobbi natalizi, che a Parigi non sono propriamente sobri. «È surreale, questa normalità», dice un mio amico.
Arrivati davanti l’Hotel de Ville, notiamo i primi blindati della polizia, parcheggiati a fianco all’uscita posteriore del municipio, coi motori accesi. Nel piazzale davanti, la grande pista di pattinaggio allestita per le feste di fine anno è piena di gente che scorazza, cade, sorride; le casse diffondono nell’arie le note di musiche che ad un gruppo di Italiani non possono che ricordare qualcuno dei tanti cinepanettoni ingurgitati. Il suono di una sirena copre a fatica quei rumori, e solo per qualche secondo. Nessuno sembra accorgersene.