Il movimento rivoluzionario di Basaglia. Intervista al ricercatore inglese John Foot

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La violenza e l’esclusione sono alla base dei rapporti nella società e il malato di mente per Franco Basaglia (1924-1980) era vittima della violenza istituzionale. Il medico veneziano, rivoluzionario padre della nuova psichiatria, ispiratore della Legge 180, nel 1961 fu chiamato a Gorizia,  a dirigere un manicomio sul confine con la ex Iugoslavia, con lui un gruppo di giovani medici fra i quali anche la moglie Franca Ongaro. John Foot (nella foto), ricercatore inglese, docente di storia italiana contemporanea, ha dedicato a Franco Basaglia e alla sua rivoluzione possibile 6 anni di lavoro che sono diventati “La Repubblica dei Matti. Franco Basaglia e la psichiatria radicale in Italia, 1961-1978”, uscito per Storie Feltrinelli che verrà presentato a Roma il 20 febbraio alle 17 nel Museo Laboratorio della Mente dell’ASL, padiglione 6 di piazza Santa Maria della Pietà 5.

Professor Foot come si può definire quanto accadde nel 1961 a Gorizia e poi a Trieste fino al 1972?
Ritengo che nella piccola città di confine, poco conosciuta e marginale anche nel mondo accademico e medico, Basaglia, forte della sua formazione filosofica e dell’esperienza di lotta antifascista per la quale subì anche il  carcere, diede vita a quello che definisco un manifesto del ’68; la contestazione di tutte le istituzioni legate all’esercizio del potere. Nessuno poteva immaginare che lì sarebbe nato un movimento tanto rivoluzionario.

Come è nato il suo interesse per la storia della psichiatria basagliana?
Per caso nel 2008 ero a Trieste e stavo lavorando a un progetto sulla memoria divisa. Per caso ho visto un film nel quale si parlava dal manicomio provinciale dell’isola di San Clemente e io mi trovavo a Trieste dove tanto mi parlava di Franco Basaglia e della sua rivoluzione. Ho iniziato dunque a voler conoscere di più. Leggevo documenti, testimonianze ma anche le cartelle cliniche dei pazienti. Sono entrato nella vita di queste persone senza diritti e senza identità, sottoposti ogni giorno a elettroshock, legati e segregati. E’ stato un lavoro emozionante e forte. Ho capito che c’era tanto da raccontare e sono andato avanti, leggendo documenti, visionando film, incontrando i testimoni di questa grande rivoluzione.

Come mai non ha proseguito nella scrittura dopo il 1978?
Intendo farlo, perché il materiale raccolto è davvero molto e conto di pubblicarlo in un secondo volume. Mi sono reso conto che Gorizia è stato solo il  principio di un processo di cura basato sul costruire un rapporto con il paziente oltre la diagnosi, non più corpi ma uomini e donne da rispettare.

Che ruolo ebbe la politica nella rivoluzione basagliana?
Un ruolo importantissimo, senza la politica nulla sarebbe stato possibile, infatti quando a Gorizia e Trieste i rapporti si incrinarono con le giunte provinciali (competenti per la gestione dei manicomi n.d.r) Basaglia abbandonò. Egli ebbe inizialmente il sostegno della sinistra e di politici illuminati, mentre la destra, potente soprattutto a Trieste, lo attaccò quando accaddero dei fatti violenti nei quali dei pazienti in libertà uccisero dei famigliari. Basaglia non era un isolato, sapeva tessere rapporti con il potere.

Fu la fine della rivoluzione basagliana in Friuli Venezia Giulia?

Direi di no, Franco Rotelli oggi presidente della commissione regionale sanità è certamente un suo erede e non solo lui. A Gorizia l’ex manicomio è oggi un centro intitolato a Basaglia. In Friuli Venezia Giulia la psichiatria è certamente un’eccellenza, con i centri di salute mentale aperti 24 ore su 24.

Come mai la politica abbandonò Basaglia?
Gli amministratori  non seppero far fronte al costo delle responsabilità, agli attacchi che, soprattutto dalla destra, arrivarono dopo che si verificarono dei gravi fatti di sangue nei quali dei pazienti uccisero dei famigliari. Dopo l’omicidio Miklus a Gorizia la destra insorse e la stampa locale mise in un atto una campagna denigratoria; Basaglia decise di lasciare accettando l’incarico a Trieste, dove rimase fino al 1979.

Quale aspetto inedito rivela il suo saggio?
Racconta in modo particolare il lavoro dell’ équipe che lo affiancò e soprattutto il ruolo di Franca Ongaro Basaglia, moglie e collaboratrice di Franco, contributo sino ad ora sottostimato. Fu lei che si occupò di raccogliere, rivedere e elaborare i suoi scritti, quando parliamo di testi di Franco dovremmo aggiungere anche Franca accanto. Il mio non è un libro basagliacentrico, né partigiano visto che il mio essere uno storico mi fa vedere le cose da un punto di vista distaccato, quindi obiettivo. I suoi collaboratori più fidati come Antonio Slavich, Agostino Pirella e Domenico Casagrande ma altri ancora tanti altri, dopo la diaspora hanno portato la sua rivoluzione in varie città italiane. A Parma, Perugia, Reggio Emilia, Arezzo seppero attuare riforme straordinarie senza che il ruolo di Basaglia fosse centrale.

Franco Basaglia morì il 29 agosto del 1980 da imputato in un processo per abuso d’ufficio e peculato dopo una denuncia della Provincia di Trieste. Il suo difensore, l’avvocato e senatore Pci Nereo Battello, ricorda l’ultima telefonata dalla clinica di Verona dove era ricoverato. “Le sue condizioni erano molto gravi, ricorda il legale, ma al telefono si tormentava su come rispondere all’accuse che  “giapponesi, petulanti, arroganti e pericolosi” gli rivolgevano. Fra le accuse quella di aver fatto sparire un certo numero di lenzuola dell’ospedale e di averne danneggiato i muri”. L’istituzione e il potere lo hanno perseguitato, attraverso i suoi eredi, post mortem. Ciclicamente si verificano attacchi alla legge 180, ma indietro non si torna, seppur sia sempre necessario non abbassare la guardia.


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