In Italia appena mille operatori per 32 mila soggetti affidati, contro i 170 mila della Francia (con 4600 operatori) e 200 mila nel Regno Unito (16 mila operatori). Petralla: “Serve un programma per gestire le pene non detentive e una rivoluzione culturale per spostare l’attenzione dall’aspetto detentivo a quello non detentivo”
ROMA – Quello delle misure alternative al carcere, non è solo un problema di risorse. Serve invece una “politica nuova, un programma strutturato per gestire le pene non detentive e una rivoluzione culturale che sposti l’attenzione dall’aspetto detentivo a quello non detentivo”. A sottolinearlo è Vincenzo Petralla, dirigente Uepe (Ufficio dell’esecuzione penale esterna) del ministero dell’Interno. “In Francia ci sono 170 mila persone in misure alternative, seguite da 4.600 operatori, nel Regno Unito i servizi di esecuzione penale esterna possono contare su 16 mila operatori a fronte di 200 mila soggetti affidati, mentre in Italia abbiamo appena mille operatori e 32 mila soggetti. E’ chiaro che il sistema non regge. – spiega – Soprattutto se si pensa che i numeri in Italia sono in forte crescita. Per la questione delle norme, infatti, una rivoluzione è stata già in parte avviata, mentre sul piano gestionale ci sono segnali incoraggianti e positivi ma manca ancora un vero cambiamento di prospettiva”.
Nonostante l’aumento di cinque milioni di euro per gli Uepe, previsto dalla legge di stabilità, in Italia il 97 per cento delle risorse a disposizione del ministero è usato per il sistema carcerario, e solo una parte residuale per l’esecuzione esterna. “E’ un gigante zoppo – afferma Petralla – è vero che le risorse sono importanti, e che è la prima volta che si destinano 5 milioni di euro solo agli Uepe, ma questo non può essere la soluzione problema. Servono politiche che spostino risorse dal carcerario al non carcerario. Ma è spesso difficile anche solo nominare questi temi perché nella nostra cultura pena e carcere sono sinonimi, e come per un riflesso condizionato qualsiasi trasgressione va punita con il carcere. Serve quindi una sensibilità culturale maggiore. Il sistema delle norme si sta orientando verso un equilibrio che ci porta in Europa, dove i due terzi delle sanzioni sono non detentive e un terzo detentive, ma in Italia manca ancora una vera cultura su questo”.
Petralla si dice scettico sul fatto che l’aumento delle misure alternative possa costituire uno “svuota carceri”. “E’ vero, come si dice spesso, che la recidiva del soggetto ammesso alle misure alternative è più bassa rispetto a quella dei detenuti, ma questo è dovuto al fatto che si tratta di persone con un tasso di pericolosità più basso, cioè di soggetti che hanno un graviente penale minore – spiega il dirigente Uepe – Detto questo è indubbio che l’ingresso nelle misure non detentive, per determinate fasce, rappresenta un miglioramento e un abbassamento dei livelli di recidiva. Il nostro lavoro deve puntare a questo, ma va detto anche che il numero dei detenuti in Italia rispetto al resto della popolazione non è maggiore a quello di altri paesi europei. Il numero delle persone in esecuzione penale esterna deve quindi crescere, ma non possiamo pensare all’esecuzione penale esterna come alla valvola di sfogo del carcere. Questo non è uno strumento per ridurre il sovraffollamento o meglio può esserlo fino a un certo punto, perché i due sistemi si sovrappongono solo per una parte: quella delle persone che dal carcere vanno in misura alternativa. Ci sono, poi, un numero elevato di soggetti che dal carcere non andranno mai in misura alternativa e dalla misura alternativa non passeranno al carcere. Per questo l’esecuzione penale esterna non può essere considerato come un sistema che assorbe il sovraffollamento”. (ec)