Conosco bene Peter Greste, il giornalista australiano della televisione Al Jazeera, detenuto in un carcere egiziano dal 29 dicembre 2013. Dal 2009 al 2011 ha lavorato a Nairobi. Ci incontravamo spesso alle riunioni della Fcaea, l’associazione della stampa internazionale, che quasi ogni settimana dà la possibilità di intervistare “off records” gli esponenti politici di passaggio nella capitale del Kenya. Una occasione per creare rapporti, scambiarsi idee e informazioni. Quel pazzo di Peter amava sfrecciare sulla sua rombante motocicletta per le strade di Nairobi (dotate di buche simili alla fossa delle Marianne) ed evitando contemporaneamente i matatu, piccoli pullman privati che assicurano il trasporto pubblico, guidati da autisti costretti a turni di lavoro di 15 ore da affrontare masticando foglie di qat, una droga legale che provoca effetti simili all’anfetamina che cancella fame e stanchezza. L’ultima volta l’ho incontrato al Westgate, il centro commerciale attaccato dai terroristi somali nel settembre 2013, un veloce saluto e poi ognuno a correre dietro il proprio forsennato lavoro.
Peter Greste è stato arrestato insieme a Mohamed Fahmy, canadese, capo della redazione di Al Jazeera al Cairo, ed al produttore Baher Mohammad. Durante il primo mese di detenzione furono tenuti anche in celle di isolamento. Il ministro dell’interno egiziano li ha accusati di aver favorito il terrorismo con il loro lavoro giornalistico mettendo in pericolo la sicurezza nazionale. Un processo farsa conclusosi con la condanna a 7 anni di carcere. Lo scorso 1 gennaio la Corte di Cassazione ha annunciato un nuovo processo senza però rilasciare su cauzione i tre giornalisti. In particolare Greste, Fahmy e Mohammad sono accusati di aver incontrato alcuni esponenti dei Fratelli Musulmani, il movimento islamista politico-religioso dichiarato “gruppo terroristico” dal governo del Cairo appena una settimana prima degli arresti. In realtà sono in carcere per aver fatto solo il loro lavoro perché quegli incontri (simili a quelli fatti da centinaia di altri giornalisti) servivano ad acquisire informazioni per offrire un quadro completo della evoluzione politica. Peter Greste ha alle spalle quasi 30 anni di lavoro con l’agenzia Reuters, Cnn e Bbc sui fronti più caldi del pianeta: Bosnia, Afghanistan, Sudafrica e la cautela è la bussola per chi si muove in questi scenari. Purtroppo i tre giornalisti sono le incolpevoli vittime di uno scontro che oppone il governo egiziano all’emittente Al Jazeera, accusata di parteggiare per i Fratelli Musulmani e di essere uno strumento politico dell’emiro del Qatar che otterrebbe vantaggi e favori politici da parte di altri stati del Medio Oriente e dagli Usa.
Va ricordato che la Commissione per la Protezione dei Giornalisti (CPJ) ha indicato Egitto, Siria e Iraq come i luoghi più pericolosi dove fare i giornalisti. Fino ad ora sono risultate infruttuose tutte le iniziative per chiedere il ritorno in libertà dei tre colleghi. Martedì scorso il ministro degli esteri egiziano in missione alla Unep di Nairobi si è rifiutato di incontrare una delegazione di giornalisti internazionali.
Se lo spirito della manifestazione di Parigi di domenica 11 gennaio a favore della libertà di stampa è ancora in vita, non possiamo non chiedere la libertà per Greste, Fahmy e Mohammad detenuti ingiustamente da più di un anno. Sarà il miglior banco di prova (anche immediato) per capire realmente quanti di quei capi di stato e premier che una settimana fa erano tutti Charlie oggi lo sono ancora. Ma riguarda specialmente noi giornalisti, chiamati a superare la fase puramente emozionale e creare un percorso condiviso per praticare la libertà di stampa senza “se” e senza “ma”.