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Nessun grande museo è “una macchina da soldi”. Tanto più se vuol fare soprattutto cultura

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Uno degli slogan oggi più in voga per i nostri musei è questo: vanno sprovincializzati, vanno gestiti da manager, vanno resi redditizi, “macchine da soldi” più brutalmente (come disse tempo fa Matteo Renzi per gli Uffizi). Soldi, soldi, soldi, come in un famoso musical di Garinei e Giovannini, nel quale si citavano anche i romaneschi “papabraschi”, cioè i pagamenti a pronta cassa, fra Sette e Ottocento, della famiglia di papa Pio VI Braschi, promotore fra l’altro di Palazzo Braschi e del Museo Pio Clementino, i futuri Musei Vaticani.

Chissà se sono più “provinciali” i nostri musei tradizionali o quanti inneggiano alla loro sprovincializzazione che temo voglia dire commercializzazione, aumento sostenuto degli ingressi, degli incassi e quindi dei profitti. Si potranno anzitutto “gonfiare” sedi come la Galleria Borghese o la Reggia di Capodimonte per stiparvi altre schiere, masse di turisti paganti? Temo di no. Ma i nostri “sprovincializzatori” lo sanno che i mega-musei da loro citati ed esaltati non danno profitti? Lo sanno che al contrario richiedono sovvenzioni, pubbliche e private? Vediamo allora un po’ di dati reali.

Una espressione allusiva che gira molto di questi tempi riguarda il Metropolitan Museum of Art di New York ed è la seguente: “Il Metropolitan da solo incassa più di tutti i Musei italiani”. Lasciando capire che esso frutta dei bei profitti a chi lo gestisce. Una balla delle più sonore. Vediamo i dati dell’Annual Report 2014. Gli ingressi rappresentano soltanto il 10,5 % degli introiti, il merchandising il 19,57, ristoranti, parking, garage, auditorium, ecc. il 7,6. Pertanto le entrate squisitamente commerciali  qui si fermano e costituiscono nel complesso il 37,7 % del totale. E il resto dei costi, come viene colmato?
Con entrate non commerciali, pubbliche e private: un 7,3 % è formato da sovvenzioni della Città di New York per guardiania, manutenzioni, riconoscimento di pubblico servizio, ecc. Poi ci sono donazioni e sovvenzioni di vario tipo molto cospicue, pari al 21,4, e contributi dei soci pari all’8,06 %. E i conclamati profitti? Zero via zero. Del resto i musei dovrebbero fare anzitutto cultura, non essere slot-machines.

Ma vediamo cosa succede all’altro mega-museo mitizzato in questi anni dai nostri “sprovincializzatori”, il Louvre. Il suo amministratore, Hervé Barbaret, è stato invitato tempo fa a Roma affinché spiegasse come si gestisce un museo di successo. Ecco l’impeccabile esordio: “I musei sono imprese culturali e scientifiche, non possono essere considerati con criteri meramente economici ed è evidente che la mano pubblica deve essere sempre presente e in modo massiccio”. Il Louvre, infatti, ha un bilancio di 200 milioni di euro l’anno, di cui una metà arriva dallo Stato e l’altra dalla vendita dei biglietti, dai vari servizi e, non ultimo, dai mecenati”. Che in Francia sono numerosi, generosi e debitamente incentivati. Anche qui, profitti culturali molti, profitti economici zero via zero. Pur avendo attrezzato una superficie espositiva enorme. Con seri problemi di controllo su episodi di bullismo, di danneggiamento, ecc.

Un altro slogan prediletto dai nostri “sprovincializzatori”, spesso dilettanti, è il seguente: “I nostri Musei sono troppi, alcuni incassano pochi euro al giorno, dobbiamo ridurli di numero”. Forse basterebbe renderli gratuiti. Fra l’altro la politica seguita dall’attuale governo (?) dei beni culturali è quella delle “domeniche al museo”, con le quale sta dimostrando una cosa: che gli italiani vanno ai musei essenzialmente quando sono a ingresso gratuito. Il contrario esatto del “mettere a reddito i musei”, di “far fruttare i musei”. Schizofrenia? Un po’ sì, francamente. Il Regno Unito, pragmaticamente, ha scelto sull’onda di una tradizione antica la gratuità dei grandi musei (si pagano soltanto le mostre) riorganizzando a fondo l’offerta turistica. Ha cioè ritenuto il turismo culturale un indotto economico che può venire fortemente accresciuto dalla gratuità di musei belli, ordinati, attraenti, con servizi aggiuntivi funzionanti. E i risultati sembrano dar loro ragione.

I servizi aggiuntivi. Al Metropolitan Museum come al Louvre (ecco invece una lezione tanto chiara quanto trascurata) l’area commerciale presenta incassi decisamente strepitosi rispetto alla miseria di quelli italiani, anche quando gli ingressi – per esempio del Colosseo – ammontano a svariati milioni d’anno. Purtroppo in un anno di governo il ministro Franceschini non è riuscito nell’impresa di emettere le nuove linee-guida per l’appalto delle concessioni di servizi museali aggiuntivi da ben sei anni prorogate contro tutte le regole, nazionali ed europee. Mentre sta riuscendo a dissestare la struttura di un Ministero che andava “ricostruito” con saggezza e competenza. Ma le concessioni in prorogatio dei servizi fruttano, quelle sì, dei bei profitti ai privati e assai poco allo Stato. E chi le schioda?

NB: ho provato a inviare letterine, brevi, di precisazione coi dati essenziali del Metropolitan e del Louvre, ai maggiori giornali dopo che essi aveva dato grande risalto agli ingressi e agli incassi alludendo a chissà quali profitti. Non ne è mai uscita neppure una riga. Viva il pluralismo dell’informazione.


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