Per la Befana un caro amico napoletano, docente di Psicologia Dinamica alla Sapienza, mi riserva un dono inaspettato, un Presepe da viaggio. In un astuccio azzurro regolarmente fornito di clip da taschino come una penna stilografica, è contenuta una messa in scena in miniatura della Sacra Famiglia, completa di angeli osannanti e di re magi sullo sfondo dei tetti di Betlemme. Solo la genialità di Napoli poteva giungere a un’idea così affabile, fornire al viaggiatore costretto a spostarsi il 25 dicembre o durante le feste natalizie una rappresentazione intima, calda e privata della Notte Santa; l’illusione di restare a contatto, persino nell’anonima carrozza ferroviaria, con le statuine tante volte disposte ad arte per rievocare a casa propria la nascita di Gesù. Che come si sa è simbolo del passaggio dal buio alla luce, di un nuovo affacciarsi alla vita. Mentre nelle scuole, nei locali pubblici, si gareggia in nome di un illuminismo di comodo a smantellare i simboli del Cristianesimo, compreso l’allestimento del presepe, nei mercatini popolari si rimedia con la fantasia alla diffusa stupidità iconoclastica. Negare le proprie radici culturali non è un atto di rispetto per le minoranze come si vuol far credere, ma la spregevole pavidità di chi ha già venduto se stesso e la propria anima al padrone di turno, il quale tra minacce e ricatti pretende, benché ospite, di imporre la propria arroganza.
La nostra non è più la sacrosanta democrazia della maggioranza – come ogni giorno possiamo osservare anche in politica – ma al contrario lo spadroneggiamento delle minoranze che piegano arbitrariamente ai propri interessi di parte i principi della tolleranza democratica. Il popolo, imbelle, frastornato, incapace di reagire, subisce in silenzio fino a quando non avrà più alcuna facoltà di parola o decisione, completamente in balia dei nuovi dispotici poteri. L’italiano singolo è coraggioso, e anche eroico, ma tutti insieme siamo un popolo di codardi come abbiamo ampiamente dimostrato nella nostra storia patria, abituati da sempre a chinare la testa al nuovo dominatore. Adesso l’ultima tendenza, autolesionistica, è la polemica contro il suono delle campane, partito inizialmente come un sordo borbottio, poi cresciuto ad aperta lamentela, e ora ringhiante in una ostilità sempre più rissosa.
Le campane con i loro suoni vanno abolite perché disturbano. Disturbano chi? Forse le nuove etnie abituate ai minareti e ai richiami del muezzin, e dunque insofferenti ai bronzi che sono la voce stessa del Cristianesimo? Quando arrivai a Roma, ancora ragazzo, il mio stupore è stato nello scoprire che i romani, i comuni abitanti della città, riconoscevano familiarmente il suono delle campane provenienti dalle varie chiese: “Questo è San Giovanni ai Fiorentini”, dicevano, “questo è Sant’Andrea della Valle”, “questa è Santa Maria del Popolo”. Oppure: “Hai sentito Sant’Agnese in Agone? E’ mezzogiorno”. Dal mattutino al vespro il popolo di Roma è guidato dal moltiforme suono delle campane, perché ogni bronzo possiede la sua intonazione caratteristica, il suo timbro acuto o grave, il suo rimbombo inconfondibile. Primo fra tutti il Campanone di San Pietro (fuso dal Valadier) che quando suona a distesa raggiunge ogni angolo della città riempiendo a festa il cuore delle persone. Per gli abitanti della Spina di Borgo ogni incombenza della giornata è stata sempre scandita dai bronzi della basilica (l’antichissima Campana della Rota, 1280, e il Campanoncino, 1725) che battono anche le ore. Il suono che giunge dal tempio della Cristianità, dal suo campanile, rappresenta per tutti una certezza, un senso di continuità, di identità. E i rintocchi a distesa rendono la stessa aria di Roma una trasparente cassa armonica vibrante di echi misteriosi. Ricordate la canzone di Gorni Kramer e Mario Riva? “Domenica è sempre domenica, si sveglia la città con le campane, al primo din don del Gianicolo, Sant’Angelo risponde din don dan…”
Il campanone è stato spesso utilizzato anche da Federico Fellini per il quale, come si può leggere più sotto, il riverbero delle campane si associava alla malinconia. Nel suo film ROMA il Campanone conclude la sequenza del Defilé Ecclesiastico, con l’apparizione del Papa in candida veste dentro il tripudio di una cornice di raggi d’oro. Le campane appartengono al nostro vissuto, alla nostra remotissima memoria acustica. Nelle campagne il suono delle campane udito a chilometri di distanza non indicava soltanto le cadenze liturgiche, ma chiamava il popolo a raccolta per ogni calamità o emergenza, incendi, inondazioni, furti, violenze, incursioni nemiche. I campanili svettavano in cielo, simbolo di ogni comunità; e nelle nostre contrade pianeggianti punteggiano il paesaggio disegnando la rassicurante geografia di borghi e città. Spegnere la loro voce significherebbe non soltanto mutilare il credente dell’impulso alla preghiera, ma rinnegare senza ragione la nostra stessa appartenenza. Sarebbe una sciagura cedere alle petulanti insistenze degli ‘utili idioti’, offuscati dal pregiudizio e dall’ideologia, per scardinare il tessuto sociale e spirituale che ci protegge, creare quel vuoto così propizio a qualsiasi inammissibile prepotenza. Se qualcuno non gradisce il suono delle campane, si metta i tappi nelle orecchie, cambi abitazione o nazione, scelga una diversa civiltà. Qui in Italia le campane sono di casa e tali ci auguriamo che restino fino a quando ci sarà una maggioranza capace di far valere i propri diritti. A Roma, per l’Angelus, il campanone di San Pietro spande energicamente la propria voce e nessun romano se ne lamenta, nessun turista, tra i milioni che ogni anno affollano la Capitale. Il suono del Campanone è un ‘must’, ascoltabile anche su YouTube. Ci piace, lo vogliamo, lo difenderemo, perché la sua nota possente garantisce la nostra irriducibile difesa di ogni libertà di espressione.
FINESTRA
Federico Fellini, intervistato per la RAI a Chianciano nel settembre del 1970 da Alberto Michelini, parla così delle campane:
“Quando cominciano a rintoccare le campane della sera avverto un momento, di brivido, dei soliti rimorsi, il solito ricatto. Ecco, mi ricordo a Rimini, certe domeniche per le strade deserte, per le piazzette vuote, delle passeggiate così, un pochino prive di senso, col proposito di divertirci perché era domenica, perché bisognava divertirsi in quanto era il giorno atteso per il divertimento, mi ricordo all’improvviso questi rintocchi, queste filastrocche di campane che ti stampavano proprio nel cuore una mestizia e un sentimento di paura, di disagio. Penso che per tutti la campana – siccome è inattesa, quando parte dal campanile e ti arriva alle spalle – provochi sempre un soprassalto; sei portato a pensare che è ora di cambiar vita, che devi piantarla di fare il vitellone, che devi comportarti bene, che devi essere un buon marito, un buon cittadino.”