“Tutti si chiedono perché sono napoletano e suono il blues e la risposta è molto semplice: Napoli è una delle più importanti basi militari americane del mediterraneo e io fin da ragazzo frequentavo i bar dei militari americani in libera uscita. Lì ho cominciato ad amare il blues”.
Così minimizzava Pino Daniele quando, lo incontravo sotto casa: ha abitato per qualche anno nel mio stesso palazzo, in via Montanelli,a Roma. Sempre sottotraccia. In realtà il suo blues napoletano aveva radici culturali profonde, la sua musica agganci con il mondo arabo, la sua genesi frutto di elaborazione e studi tutt’altro che casuali. Ma Pino aveva la grandezza della semplicità che solo i grandi sanno avere. E poche parole. Quando è salito sul palco dell’Apollo theatre di Harlem a New York, nel 2012, non ha dovuto spendere molte parole. Il suo concerto è stato un successo. Lì, sullo stesso palcoscenico dove avevano esordito giganti come Aretha Franklin o James Brown lui si sentiva a suo agio come a Napoli. Cantava in napoletano e gli afroamericani si spellavano le mani dagli applausi. “Blue”d’altronde vuol dire anche melanconico, triste. E la musica di Pino Daniele ha sempre avuto in se la dolcezza triste degli ultimi, del sud, della sofferenza e della speranza. La stessa dolcezza triste dei grandi del jazz americano da Bessie Smith a Louis Amstrong. “Putessi essere allero” potessi essere allegro non era che l’eco musicale del “putessi truva’pace”di Eduardo De Filippo”. Il blues napoletano. Il dolore che diventa poesia. Grazie Pino
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