La figlia del mezzadro si chiama Naïs, e a sedici anni è sbocciata come un fiore raro e inebriante. I padroni, l’avvocato Rostand, la moglie, quasi non la riconoscono da un’estate all’altra, e il figlio Frédéric, studente svogliato quanto dedito alla débauche, rimane proprio a bocca aperta, senza parole: “Sei tu?” Balbetta sbalordito. “Naïs era meravigliosa, con la sua faccia bruna sotto il caschetto scuro di capelli neri e aveva spalle forti, belle curve e magnifiche braccia di cui mostrava i polsi nudi”. La ragazza raccoglie in un lampo il divampante desiderio del ragazzo, e nell’istante in cui lui tenta di trattenerla a sé, è già sua complice: “No, no, non qui… Stai attento! Ecco tua madre.”
Lo avverte passando rapida al tu. Il signorino “un bel giovanotto, alto e dai tratti regolari, con un’abbondante barba nera”, giunge come un balsamo insperato per lei, trattata dal padre Micoulin alla stregua di un animale, soltanto fatica e botte, asservita al suo potere tirannico, venato per di più di laida perversione, forse un’inconfessabile passione incestuosa. Il mezzadro, “un vecchio robusto dalla faccia nera e scavata davanti al quale tutta la casa tremava”, non permette che nessuno le si avvicini, ad eccezione del gobbo, un essere deforme e spregiato che lo aiuta nei lavori dei campi e nella pesca, ed è in perenne beota adorazione della giovane femmina che ne utilizza con astuzia i servizi. In questo truce scenario di miseria e brutalità, l’arrivo dei padroni ad agosto da Aix en Provence alla Blancarde, la villa affacciata su un’insenatura rocciosa della costa marsigliese, reca con sé un inevitabile sovvertimento, apre varchi di libertà. Naïs è richiesta per i lavori domestici dalla signora, e Micoulin non può dire di no. Ma teme la presenza del giovanotto e cerca di portarlo con sé quanto più spesso possibile a pescare, a gettare le reti fin dalla mattina presto. Già la sera dell’arrivo i due ragazzi si sono incontrati al buio in fondo alla terrazza, sotto i pini che profumano di resina: “Lui le prese le mani, l’attirò contro il petto e la baciò sulle labbra”.
Qualche notte dopo si rivedono sotto l’ulivo al bordo della falesia, come facevano da bambini. Naïs per raggiungerlo è saltata dalla finestra, e ora il vecchio tronco nodoso li ricopre con il suo tetto di foglie grigie. In fondo al golfo brillano le luci di Marsiglia, di fronte respira il mare nero e immobile sotto le stelle: “L’unico bisogno che avevano era di possedersi l’un l’altra. Lui la trovava bella ed eccitante in quella sua abbronzatura e quel suo odore di terra. Lei assaporava l’orgoglio della ragazza picchiata che diventa l’amante del giovane padrone. Gli si abbandonò”. Che mese adorabile! Racconta Zola, non ci fu neanche un giorno di pioggia: “Fu in mezzo a questa regione fiammeggiante che Naïs e Frédéric si amarono incessantemente. Sembrava che tutto il fuoco del cielo fosse passato nel loro sangue.” Si accorsero che il gobbo assisteva non visto ai loro amplessi, vegliava segretamente per proteggere dal padre l’adorata Naïs. Ma anche il vecchio Micoulin una notte si apposta per spiarli e nella follia rabbiosa concepisce l’idea di ammazzare il figlio del padrone, attirandolo in un qualche trabocchetto di pesca. Intanto i ragazzi “portavano in giro i loro amori in tutti i nascondigli che il paese poteva offrire”; e i giorni in cui il padre la picchiava “Naïs abbracciava il suo amante con più ardore, come per vendicarsi del vecchio”. Poi Micoulin crea un incidente di pesca, manovrando le vele in modo che il violento Mistral rovesci la barca, ma Frédéric che pure in acqua è un gatto di piombo, miracolosamente la scampa.
E’ il segnale per Naïs che è giunto il momento di intervenire, come solo una donna innamorata e rancorosa è in grado di almanaccare; deve salvare Frédéric, ben sapendo che non le apparterrà mai, che l’estate finirà presto e lei sprofonderà senza appello nella sua esistenza tetra e immutabile. “Per lei la stagione d’amore era finita, e non sarebbe più ricominciata, se lo era detto fin dal primo appuntamento”. Uno scenario privo di redenzione, degno di Giovanni Verga, al quale tuttavia l’inventore del verismo francese riesce a donare lampi di una sensualità e di una vitalità contagiosa, quasi palpabile. C’è anche un altro racconto del libro che sorprende per l’originalità e la sapienza, protagonista un individuo a mezza strada tra Monsù Travet e il Fu Mattia Pascal; del resto è quasi certo che Luigi Pirandello vi si sia ispirato per il suo celeberrimo romanzo. Si intitola “La morte di Olivier Bécaille” e narra di un modesto impiegato che per accontentare la giovanissima e inquieta consorte, si trasferisce dalla provincia presso un ministero di Parigi. Ma già la mattina successiva al loro arrivo in un dimesso alberghetto, Olivier cade in catalessi, una morte apparente scambiata per reale. Benché ridotto a una rigidità cadaverica, egli avverte tutto ciò che accade intorno a lui e riferisce in prima persona, passo per passo, l’orribile condizione che lo sta conducendo ad essere seppellito ineluttabilmente in un cimitero della città. Mentre sua moglie, la bella Marguerite, priva di risorse e di conoscenze nella grande metropoli, sarà costretta ad accettare, certo non controvoglia, le attenzioni e forse la sistemazione con un giovanottone benestante ospite della pensione, accorso subito ad aiutarla per spirito, diciamo così, umanitario.
La meticolosità e la capacità evocativa con cui viene descritto ogni attimo dell’atroce destino, possiedono la potenza visionaria dei racconti di E.A. Poe, condita però da un guizzo di ironico distacco alla francese, una rassegnazione mai rabbiosa che ci inducono ad amare il malcapitato alla stregua di un fratello sfortunato. Il finale è un capolavoro di inventiva, di esprit de finesse. La raccolta nel suo complesso possiede il profumo inebriante dei classici che non invecchiano mai e riscaldano il cuore. Specialmente quando sono offerti con tanta grazia editoriale, in una traduzione efficacissima di cui è autore Paolo Fontana, e con la presentazione dell’eccellente Pierluigi Pellini, godibile per perspicacia critica e talento affabulatorio. La collana Itaca, dell’Editore Pellegrini, è diretta da Mauro Minervino, davvero non nuovo a tali sorprendenti riscoperte letterarie.
(Nella foto una giovane e splendida Stefania Sandrelli che può evocare la bella Nais del racconto di Zola)