Il crollo verticale del prezzo del petrolio e la crisi incontrollabile del rublo riportano la Russia e il mondo indietro di sedici anni. Era il 1998, il greggio scendeva ai suoi minimi storici e l’Orso ex sovietico era all’epoca ancora guidato da Boris El’cin, ossia dal peggior presidente della storia russa, di lì a poco costretto ad abdicare in favore dell’attuale timoniere. Chiariamo subito che non è nostra intenzione difendere Vladimir Putin, le cui pecche e la cui mancanza di spirito democratico ci hanno indotto negli anni ad assumere posizioni molto dure nei suoi confronti; chiariamo anche, però, che, nonostante tutti i suoi difetti, non si può non riconoscere il merito del novello zar nella restituzione di un minimo di dignità, credibilità e prospettive ad un popolo che, sotto la precedente gestione, era ridotto alla fame e condannato alla derisione e ad un declino apparentemente inarrestabile.
Allo stesso modo, è doveroso sottolineare che nella crisi russa l’Occidente, e in particolare gli Stati Uniti e un’Europa da tempo dedita al vassallaggio, ha responsabilità non secondarie, a causa dell’applicazione di sanzioni inique ed eccessive che ci si stanno ritorcendo contro e dell’inasprimento smodato dei toni sulla questione ucraina: una polveriera nella quale tutto avremmo dovuto fare fuorché tirare la corda fino al punto di rottura, di fatto obbligando Putin a riconquistare alla Russia la regione del Donbass, provocando un clima di instabilità internazionale del quale pagheremo a lungo le conseguenze.
Non paghi di questo disastro, noi europei abbiamo pensato bene di affidare la guida della Commissione europea a un personaggio debole, chiacchierato ed evidentemente poco autorevole, al quale i singoli stati hanno imposto una serie di figuri impresentabili, liberisti in economia, guerrafondai in politica estera, nettamente anti-europeisti ma, in compenso, dichiaratamente filo-atlantisti che, come primo atto, hanno subito lasciato intendere di voler proseguire nel processo di sconfinamento della NATO nei territori dell’ex gigante sovietico. Peccato che nessuno di loro abbia mai aperto un libro di storia: se lo avessero fatto, saprebbero bene che nessun condottiero, nemmeno uno stratega avveduto e amatissimo dalle proprie truppe come Napoleone, è mai riuscito a piegare una nazione-continente come la Russia, e questo non solo per i rigori dell’inverno e per la strategia militare della terra bruciata quanto, soprattutto, per una caratteristica tipica del popolo russo: l’orgoglio. Tentare di “spezzare le reni” a un popolo abituato ad amare la propria Patria quasi più di se stesso equivale ad accendere una miccia che potrebbe provocare una deflagrazione internazionale dalle conseguenze imponderabili, qualcuno si spinge addirittura a ipotizzare una Terza Guerra Mondiale (papa Francesco ne ha parlato apertamente in estate) o, comunque, una serie di guerre sparse, destinate a congiungersi nell’ambito di una generale destabilizzazione di un pianeta ormai troppo interconnesso per scherzare col fuoco delle mire espansionistiche e delle ambizioni personali.
Senza contare che la Russia potrà anche crollare e Putin essere sostituito da un fantoccio sul modello del predecessore ma ciò non comporterà alcun vantaggio né per noi europei né per gli americani, i quali dovrebbero aver imparato in Vietnam che si può pure essere una superpotenza, con una capacità bellica di gran lunga superiore a tutti gli altri, ma non si può pensare di vincere contro un intero popolo, meno che mai se appartiene ad una nazione che, oltre ad essere la più vasta al mondo, possiede anche l’atomica e un esercito di tutto rispetto.
Non pretendiamo che lo capisca la peggior classe dirigente mai vista nella storia del Vecchio Continente, ma ci auguriamo che qualche economista serio, qualche consigliere strategico dotato di una certa esperienza e qualche esponente politico della vecchia guardia facciano notare a quest’orgia di yuppies e personaggi in cerca d’autore che sono almeno cinque anni, dal famoso discorso di Obama al Cairo, che nessun evento mondiale di primo piano avviene in Europa, il che significa che stiamo diventando marginali negli equilibri culturali, economici e, quel che è peggio, negli assetti geopolitici del Ventunesimo secolo. Spingere, dunque, Putin ad abbracciare la Cina, dopo aver fatto altrettanto con Obama, significherebbe mandare definitivamente in soffitta sia il vetusto G8 sia il problematico G20, lasciando campo aperto a un predominio sino-americano da una parte e arabo-russo dall’altra.
In poche parole, diverremmo sudditi del G2 per quanto riguarda le decisioni politiche, e dei petrostati per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, senza avere più alcuna voce in capitolo in nessuna delle decisioni cruciali che verranno prese a breve e in futuro sulla nuova carta del mondo.
Per questo, l’unica soluzione auspicabile sarebbe l’eliminazione immediata delle sanzioni inflitte alla Russia, il riconoscimento della regione del Donbass quale appendice russa, un’abile azione diplomatica per “finlandizzare” quel che resta dell’Ucraina, un saggio ridimensionamento delle mire della NATO e la conclusione dello strapotere delle ex repubbliche sovietiche, restituendo la guida dell’Europa ai paesi fondatori che, sia pur in declino, sono tuttora dotati di un ceto politico meno indecente e prono dal punto di vista dell’autonomia decisionale e di pensiero.
Poiché, presumibilmente, non accadrà nulla di tutto ciò, prepariamoci ad assistere al probabile smembramento dell’Ucraina, alla seconda implosione del “gigante dai piedi d’argilla” e al trionfo dei dilettanti allo sbaraglio, col rischio che a fare una brutta fine siano anche l’Europa e l’euro, cioè tutti noi.