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Quindici anni fa se ne andava Beniamino Andreatta, uomo dallo spirito ulivista

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Quindici anni fa, la sera del 15 dicembre 1999, ci lasciava Beniamino Andreatta. Sarebbe morto il 26 marzo del 2007 ma la sua vita, di fatto, si concluse quella sera, a causa di un infarto e della conseguente ischemia cerebrale che lo costrinse a rimanere in stato vegetativo finché il cuore non smise di battere nel reparto di rianimazione del Policlinico Sant’Orsola di Bologna.

Qualche settimana fa, grazie alla cortesia della direttrice della rivista dell’AREL, ho avuto l’onore di visitare il suo ufficio, oggi ereditato da Enrico Letta, e, a parte l’emozione personale, mi è tornato subito in mente quello spirito profondamente ulivista, profondamente innovatore, profondamente improntato al buon riformismo di sinistra che respiravo in casa negli anni dell’infanzia, quando i bambini venivano chiamati i “figli del Duemila” e si immaginava per noi un futuro meraviglioso, senza guerre, senza violenza, con un’Europa unita da conquistare e tutta da vivere, l’euro in tasca, nessuna barriera, nessun ostacolo, nessuna ostilità fra popoli diversi per storia, cultura e tradizioni e, a livello nazionale, credevamo di essere diventati finalmente una democrazia matura, con l’approdo della sinistra al governo e l’avvio di una stagione di riforme destinate a segnare positivamente un’epoca.

Durò poco, appena due anni, ma lasciò il segno. Poi è arrivato Berlusconi e, prima di lui, la falsa sinistra terzaviista di Blair, Schröder e Clinton ha gettato i semi della disfatta, con un cedimento culturale e un’implicita dichiarazione di subalternità che ha attraversato tutto il decennio successivo, fino a sfociare nell’inferno della crisi, delle nazioni mediterranee strangolate dai dogmi del liberismo e dall’instaurazione di un sistema sociale iniquo e insostenibile, condannato all’implosione per il semplice motivo che non si basa su alcun fondamento logico se non l’avidità e la brama di ricchezze e potere di pochissimi a scapito della collettività.

Ha perso Prodi, ha perso Andreatta e con loro abbiamo perso anche noi: allora simboli di un ottimismo contagioso e dilagante e oggi figli della crisi e dell’incertezza, costretti a emigrare all’estero per sfuggire al precariato e ai salari da fame, alle umiliazioni e allo sfruttamento, a una scuola inadeguata che andrebbe riformata da cima a fondo, in direzione esattamente opposta rispetto a quella indicata dai ministri succedutisi dalla Moratti in poi (con l’eccezione di Maria Chiara Carrozza, va detto), e a vite fragili, caratterizzate dalla paura e dalla solitudine.

Hanno perso Prodi e Andreatta e con loro hanno perso i quarantenni di oggi: una generazione mai formata per diventare classe dirigente e oggi drammaticamente inadatta a governare, incapace di assumere qualunque decisione, priva di esempi e punti di riferimento, costretta a fare i conti con una crisi per fronteggiare la quale non hanno gli strumenti culturali necessari, convinta che basti definirsi “post-ideologica” per raggiungere il proprio scopo e ignara persino del fatto di non essere altro che uno dei tanti meccanismi di quest’ingranaggio stritolante che è il pensiero unico della finanza sregolata che domina un mondo sull’orlo dell’abisso.

Eppure, in quella stanza piena di libri, sobria, austera com’era lui, si respirava il senso di un’utopia sconfitta ma per nulla arresa; si poteva ammirare il senso di una missione civile che la sinistra stessa non ha saputo capire né interpretare fino in fondo e si intravedeva il percorso umano, politico ed ideale di un uomo che aveva la rara virtù di credere nel prossimo e la perseveranza di crederci anche quando chiunque altro avrebbe preferito lasciar perdere. In poche parole, era un costruttore di dialogo e di buona politica, teorico della distinzione fra la politica come valore in sé e le politiche come attuazione pratica di un pensiero basato su alcuni punti fermi, primo fra tutti la rettitudine morale e il mettersi al servizio della comunità.

È comprensibile che a un mio coetaneo la figura di Andreatta dica poco: così poco mediatica, così seria, ligia al dovere, distante anni luce dai gaglioffi che hanno dominato le cronache delle ultime settimane ma anche dai falsi ingenui, dai carrieristi, dal rampantismo gentile solo di facciata dei falsi innovatori moderni, dalla pochezza, dal vuoto e dall’assordante nulla dello strillo che prevale sulla riflessione, punti fermi dell’attuale, sconfortante panorama giornalistico, politico e culturale italiano ed europeo.

Andreatta – per citare uno dei miei maestri, Beppe Giulietti – aveva ben presente la differenza fra radicalità e radicalismo: praticava la prima e detestava il secondo e i suoi fautori, già presenti sulla scena politica e mediatica nei suoi ultimi anni di vita. Non a caso, racconta la moglie Giana Petronio, in una bella intervista che apre l’ultimo numero dell’AREL, che la sera della prima vittoria di Berlusconi il professore trentino intravide profeticamente la mutazione genetica in atto, tanto a destra quanto, purtroppo, a sinistra, e disse ai figli: “Figlioli, la prossima volta le elezioni le vincerà Pippo Baudo e sarà il nostro candidato”. Troppo grande per essere capito, in quest’Italia “volgare e gaudente” che si diverte a bruciare con masochistica voluttà qualunque simbolo e punto di riferimento.

Eppure, se ancora non siamo definitivamente crollati e possiamo guardare al futuro con un brandello di speranza, vuol dire che la sua lezione non è andata del tutto perduta, che qualcosa è rimasto, a cominciare dall’idea che il mercato non sia un male ma vada regolamentato e che lo Stato sia non solo necessario ma imprescindibile se non si vuole correre il rischio di scivolare verso forme di governo a metà fra l’autoritarismo, la pagliacciata e l’eterodirezione da parte di interessi stranieri. Il riformismo di sinistra, la cultura al servizio della politica, l’incontro fra tradizioni diverse ma conciliabili, il patto sociale e repubblicano fra interessi opposti ma accomunati dalla comprensione dell’importanza di compiere un percorso comune, la sfida dell’Europa e un’altra idea di futuro, mai realizzata ma proprio per questo ancora più affascinante e caratterizzata dal piacere della scoperta incessante: questo era Nino Andreatta e la nostra generazione farebbe bene a studiarlo e a metterne in pratica gli insegnamenti.


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