Aspettava il passaporto per rinnovare il permesso di soggiorno: dopo un controllo, la polizia le ha dato un decreto d’espulsione, costringendola a dimorare nella casa dei genitori. Dove il padre e il fratello l’hanno molestata per quattro anni
BIELLA – La beffa più grande, probabilmente, è che l’epilogo di questa vicenda arrivi proprio oggi. Perché nel primo pomeriggio, mentre il resto del paese starà celebrando la giornata contro la violenza sulle donne, “Chiara” sarà nel tribunale di Biella; in attesa che un giudice decida se dovrà rientrare in Senegal, dove ormai non ha più nessuno da quando aveva sette anni. La sua unica colpa è aver rifiutato l’obbligo di dimora nella casa dei genitori, dove il padre e il fratello, per almeno quattro anni, l’hanno sottoposta a violenze di ogni genere. Finché un giorno, nel 2006, è svenuta a scuola e si è risvegliata in ospedale, dove i servizi sociali l’hanno convinta a parlare, affidandola poi alla comunità per minori in cui è rimasta fino a un anno fa.
Ventidue anni, barista, diplomata in istituto alberghiero, ai giornalisti “Chiara” non ha voluto dare le sue generalità, perché quella vita sarebbe qualcosa da dimenticare se le pastoie della burocrazia non gliel’avessero risbattuta in faccia. Nel febbraio scorso, di passaggio ad Alessandria, la polizia la ferma per un controllo. Non ha passaporto né permesso di soggiorno, così, dopo cinque ore di attesa in questura, si vede recapitare un foglio di via dalla città: da Biella fanno sapere che la famiglia l’ha ripudiata, quindi in Italia non ha più diritti.
Quello che ad Alessandria forse non sapevano è che quel passaporto lei lo stava aspettando da tre anni. Appena maggiorenne era andata a chiederlo al Consolato senegalese di Milano, facendosi accompagnare da un’operatrice della sua comunità: ma il suo certificato di nascita in Senegal sembrava fosse sparito, e senza i genitori che garantissero per lei la pratica non poteva andare avanti. “Così – spiega l’avvocato Raffaele Folino, che sta seguendo il caso – il Console le ha consigliato di tornare a casa, riconciliandosi con la famiglia. Per rispetto delle tradizioni, prima ancora che per poter seguire una procedura più semplice”.
A rientrare a casa, in effetti, Chiara ci prova; ma non è semplice, con quel vissuto alle spalle. Fino a 14 anni, delle molestie di suo fratello – che in prima superiore le procurarono un primo ricovero per un violento attacco di panico – non aveva mai nemmeno voluto parlarne. “Per la cultura senegalese – spiega – il sesso è tabù anche solo nominarlo. Siamo musulmani e mio padre è molto severo su queste cose. In casa si parla senegalese e siamo obbligati a pregare. Sono sempre stata la più ribelle, ma non ho scelto di fare questo per avere più libertà, perché in comunità non te ne danno”. Senza volerlo, era stato proprio il padre a offrirle una via di fuga: scoprendola a marinare la scuola, l’aveva picchiata fino a procurarle quel ricovero che, in teoria, avrebbe dovuto trasformarsi in un biglietto di sola andata.
Così, quando nell’agosto del 2013 rientra in famiglia, Chiara ci resta per un mese appena: giusto il tempo di avviare le pratiche per ottenere quel passaporto che, nel febbraio successivo, quando la portano in questura ad Alessandria, non è ancora arrivato. Lo scorso 3 novembre, la polizia di Biella le consegna un decreto di espulsione: se non lascerà l’Italia entro 30 giorni la trasferiranno in un Cie; nel frattempo ha l’obbligo di dimorare dai genitori, che però non la vogliono più. Chiara, che da qualche tempo convive con un ragazzo italiano, si sente comunque tranquilla: le hanno detto che il passaporto sta per arrivare; e, in effetti, lo scorso 14 novembre il documento arriva. “Peccato – precisa l’avvocato – che quando è andata a comunicarlo in questura, gli agenti gliel’hanno sequestrato perché ormai la pratica di espulsione era in corso”.
Il rischio, ora, è che venga rispedita in Senegal o che finisca rinchiusa in un Cie. “In Senegal non ho nessuno – spiega -. I miei genitori e i miei zii sono qua. Lì ho solo un nonno anziano e una zia che non ho mai visto. L’ultima volta che ci sono stata avevo 12 anni: non ho più nessun ricordo”. Il titolare del bar in cui lavorava le ha già detto di essere disposto a riprenderla non appena avrà tutte le carte in regola. Ora manca solo la pronuncia del giudice di pace. Che tra qualche ora si troverà a decidere se questa giornata contro la violenza sulle donne dovrà essere ricordata come uno smacco alle donne stesse o all’indolente ottusità della burocrazia. (ams)