Einaudi ha sbagliato la foto di copertina delle Lettere 1932-1981 di John Fante, pubblicando, al posto del volto dell’autore americano, quello del poeta e saggista inglese Stephen Spender, che forse otterrà da questo bizzarro errore nuova luce e attenzione. La verità che però va sottolineata è che si tratta di un libro meraviglioso. La prefazione di Francesco Durante racconta da subito la sublime mescolanza tra John Fante e Arturo Bandini, il suo personaggio, l’alter ego capace di raccontare John Fante più di chiunque altro. Lo stesso scrittore in una lettera del 1940 al suo lettore Keith Baker scrive “Vuole sapere se io sono Arturo Bandini, e io le dico che lo sono”.
Le lettere, le prime, quelle del 1932 alla mamma, devota al figlio, raccontano come Fante si tramuti da ragazzo tuttofare, impiegato nella ricerca di un qualunque lavoro che possa rendergli qualche dollaro da condividere con la famiglia, a pensoso scrittore, integerrimo nella sua vocazione letteraria e interprete delle caratteristiche autobiografiche che illumineranno in futuro i suoi libri.
L’autore di Chiedi alla polvere, “perfido nelle intenzioni e misericordioso nei fatti” – come lo descrive Durante – abita l’epistolario con ironia quando racconta di come sia semplice scrivere per il cinema: “Non ci vuole cervello per mettere insieme un film – scrive – Lo può fare qualunque idiota”; lui lo aveva fatto giusto per racimolare dei soldi che potessero permettergli di dedicarsi ai suoi romanzi. La stessa ironia che riecheggia nelle lettere quando scrive alla mamma del suo arresto, rimprovera al fratello, chiamandolo “piccolo brutto bastardo” gli errori ortografici, o quando alla cugina Jo scrive ” Vedo che ti sei data al bere, che in un certo senso è una notizia positiva”
Un Fante alle prese con la genesi di La strada per Los Angeles, impegnato con le prime ipotesi di matrimonio con Marie, che poi non sposerà e con il suo ritorno a casa di cui scrive a Carey McWilliams, scrittore più anziano e di maggior successo, raccontandogli di come il padre, avendolo sorpreso a dormire nella vasca da bagno, abbia aperto l’acqua e lui, con il corpo rinfrescato, si sia messo a scrivere “quarantamila parole di prosa gloriosa”. Sempre in balia di editori, agenti e scrittori, in ansia per il giudizio e il successo delle sue opere e con un disperato bisogno economico che lo rende scrittore/venditore in quella che lui chiama “una lotta spietata”, una lotta che lo spinge al paragone con Steinbeck: “Scriverò un libro che farà sembrare i suoi delle formiche”.
Un Fante, che nella lettera del 26 maggio 1940 a Pascal Covici, della Viking Press, ricordando l’invasione della Polonia da parte della Germania, scrive: “Hitler. Blah. Mussolini. Blah. Stupidi. Nessuno dei due ha letto “Il cagnolino rise“, un racconto scritto da Arturo Bandini in Chiedi alla Polvere e che nel decennio della guerra vede scemare la sua vena creativa. Un Fante, infine, che scrive di Joyce Smart, la donna della sua vita, la sua sposa, di quanto sia bello averla accanto, dei loro figli; lo stesso che nel periodo di Una vita piena, il suo maggior successo commerciale al tempo, visse come un dramma – racconta Joyce – l’arrivo di un quarto figlio, un ostacolo alla sua ascesa: “Quando hai a che fare con un uomo come me, non hai a che fare con una merda qualsiasi. E invece hai a che fare proprio con una merda qualsiasi e sono qui a dirtelo”.
Dalla fine degli anni ’50 la corrispondenza con la moglie Joyce si intensifica per via dei suoi viaggi in Europa, dove lavora a dei progetti per alcuni film a Parigi, Napoli e Roma. L’incontro con De Laurentiis, uomo di un’energia straordinaria che tende a gridare, a saltare su dalla sedia e a gesticolare, traccia il ritratto di un popolo che Fante vive con alterne emozioni fino alle parole della lettera al figlio Danny in cui l’impronta delle proprie origini emerge: “Mi dicono che gli abruzzesi siano persone molto per bene”. Nei decenni successivi, invecchiato e malato ma mai domato dalla malattia che lo affligge e che lo porterà all’amputazione delle gambe e alla cecità, lo scrittore che in questi anni lavora a La confraternita dell’uva dopo la pubblicazione del romanzo continua la spasmodica ricerca di un’idea perché “la perdita più grande dopo quella di una gamba è la capacità di scrivere”.
John Fante muore l’8 maggio 1963 a Los Angeles. Aveva settantaquattro anni, nella lettera all’anziana zia Dorothy che chiude il libro confessa: “È una vita dura, ma non riesco a pensare a un’altra che possa andarmi così bene”.