Il fatto non sussiste, il fatto non costituisce reato, quindi nessuno è colpevole per la morte di Stefano Cucchi. Questa la sentenza dalla Corte d’Appello di Roma arrivata come un macigno sulla famiglia Cucchi – ma anche su tutti noi – sulla morte di un ragazzo che, fermato dalle forze dell’ordine per 20 grammi di droga leggera, morì una settimana dopo nell’ospedale Sandro Pertini di Roma sotto la custodia di uno Stato che avrebbe dovuto tutelare i suoi diritti di cittadino. Un macigno, uno schiaffo per l’intero Paese che guarda ancora oggi le foto scattate al corpo scheletrico e tumefatto di Stefano Cucchi, su cui non è possibile avere dubbi riguardo l’accanimento disumano che qualcuno ha agito su di lui. Un risultato, l’assoluzione, su cui la famiglia annuncia una causa contro il ministero della Giustizia e su cui la sorella Ilaria ha dichiarato senza dubbio alcuno: “Per fermarmi devono uccidermi”, aggiungendo “Non ce l’ho con i giudici di appello ma adesso da cittadina comune mi aspetto il passo successivo e cioè ulteriori indagini, cosa che chiederò al procuratore capo Pignatone”. Una voglia di verità che porterà il caso in Cassazione e alla Corte Europea e che sarà una battaglia di tutti coloro che non vogliono essere presi in giro da uno Stato che se predica i diritti non può non andare a fondo sulle responsabilità di fatti criminosi così evidenti. Una sentenza che, tra le altre cose, suona malissimo proprio a pochi giorni di distanza dalla presentazione del Rapporto dell’Italia sui diritti umani alle Nazioni Unite, che già nel 2009 aveva raccomandato al Paese (nelle sue 92 raccomandazioni) di inserire nell’ordinamento il reato di tortura – come prevenzione anche a questi abusi di potere – che è ancora sulla carta e a cui il governo ha risposto con un “lo stiamo facendo”.
Una mancanza grave, una sentenza che lascia attoniti ma che a leggere attentamente tra le righe contiene un subdolo ammonimento: oggi è toccato a lui ma potrebbe toccare a chiunque, e fate attenzione perché è legale. Un’affermazione forte basata su una domanda precisa: quali diritti tutela uno Stato che sancisce l’impunità di chi colpisce con tanta violenza quando gli autori sono coloro che dovrebbero invece tutelare quegli stessi diritti? e quale credibilità ha questo Stato nel momento in cui un cittadino o una cittadina chiede aiuto? E perché, quindi, una donna che subisce violenza dovrebbe denunciare a chi della violenza ne fa un metodo di controllo sociale, rendendola così normale a tutti gli effetti in quanto impunita?
Ma Stefano Cucchi non è il solo caso eclatante di chi è morto sotto le mani di questo Stato, a lui si aggiungono tanti nomi, tra cui Federico Aldrovrandi, Giuseppe Uva, Michele Ferrulli, Stefano Brunetti, Riccardo Rasman, tutti morti mentre erano sotto la custodia di chi ha scelto di servire lo Stato per proteggere e difendere i cittadini e le cittadine: nelle caserme, in carcere, nelle strade, ovunque. Morti su cui ha regnato, e regna, omertà e menzogna per uno Stato che non vuole ammettere le sue di violazioni e le sue storture.
Ma vediamo come rendere reali queste parole così dure.
Federico Aldrovandi è morto nel 2005 a Ferrara durante “un controllo di polizia”, picchiato fino a morire, pestato a sangue da chi lo aveva fermato. Un caso in cui solo la lotta della madre, Patrizia Moretti, ha permesso che non fosse archiviato, e che ha portato alla condanna in Cassazione dei quattro poliziotti che quella notte massacrarono suo figlio che aveva solo 18 anni. Condanna che costò a Patrizia Moretti insulti e invettive online contro lei e il figlio morto, in quanto un tutore dell’ordine è al di sopra della legge e può fare quello che vuole.
Giuseppe Uva viene invece fermato a Varese nel 2008 e una volta arrivato in caserma viene massacrato, tanto che l’amico con cui era stato fermato chiama l’ambulanza sentendo le urla di Uva da un’altra stanza. Una testimonianza, quella dell’amico, che non sarà valutata se non alla fine, mentre alla famiglia sarà riconsegnato un corpo privo di vita pieno di ecchimosi sul volto e su altre parti, e gli indumenti sporchi di sangue con macchie rosse tra pube e ano.
Tre casi, quelli di Cucchi, Aldrovandi e Uva, che valgono per tutti e che sono testimoniati da foto di volti e corpi tumefatti, ricoperti di lividi, corpi massacrati e torturati, a riprova di una verità insabbiata perché scomoda.
Ma c’è anche chi è sopravvissuto al braccio armato della legge e che può raccontare di persona quello che è successo: come nel caso del 25enne Stefano Gugliotta, pestato dagli agenti vicino allo stadio Olimpico durante la partita Roma-Inter nel 2010, in cui il ragazzo non solo è stato picchiato ma è stato accusato di resistenza a pubblico ufficiale. Un caso dove solo il video fatto da un testimone ha dimostrato come fosse stato il ragazzo ad essere aggredito da un gruppo di celerini senza nessuna aggressione da parte sua. Oppure Paolo Buglione, che pestato senza alcun motivo e manganellato alla testa mentre saliva sul bus dopo la partita, ha oggi un grave handicap al 100%: fatica a muovere braccia e gamba e anche a parlare.
Diritti violati nell’indifferenza più totale per una violenza di Stato che dal G8 in poi (2001) – dove molti dei responsabili di quelle gravi violazioni dei diritti umani sono sfuggiti alla giustizia rimanendo impuniti – è diventata sempre più prassi, come dimostrano le manganellate date “per sbaglio” pochi giorni fa dalle forze dell’ordine in testa agli operai che manifestavano a Roma contro la chiusura delle acciaierie di Terni-Ast. Un avvertimento, quello della violenza legale contro vittime inermi, che in un momento di crisi come quella italiana, le manovre di austerity del governo ha messo in conto per controllare un eventuale risveglio del malcontento sociale in piazza. Non errori, quindi, ma una precisa metodologia di controllo sociale, che a volte può culminare in fatti criminosi, e che per questo non è considerata grave violazione.
Come racconta Antonio Crispino nella sua inchiesta per il Corriere della sera, in carcere ci sono stati “2.230 decessi in poco più di un decennio”. Crispino parla anche di “Quasi un morto ogni due giorni. Morte naturale, arresto cardio-circolatorio, suicidio. Queste le cause più comuni. Quelle scritte sulle carte. Poi ci sarebbero i casi di pestaggio, di malasanità in carcere, di detenuti malati e non curati, abbandonati, le istigazioni al suicidio, le violenze sessuali, le impiccagioni a pochi giorni dalla scarcerazione o dopo un diverbio con il personale carcerario”, e le chiama “le ombre del sistema”. Inchiesta che parla di celle singole speciali (come la cella 24 del carcere di Opera) che esistono in molti penitenziari e che viene nominata come “cella zero, cella interrata, cella frigorifera, cella nera, cella estiva/invernale”, un luogo di possibile non ritorno, come è successo a Cucchi e Aldovrandi, e a tutti quelli su cui l’opinione pubblica sa poco o nulla: come Marcello Lonzi, Manuel Eliantonio, Carlo Saturno, Bohli Kaies, Raffaele Montella, Aldo Tavola, Stefano Guidotti, Antonino Vadalà, Mauro Fedele, Gregorio Durante, Giuseppe Rotundo, e tantissimi altri.
Storie poco chiare come quella del suicidio di Katiuscia Favero, ritrovata impiccata il 16 Novembre 2005 in ginocchio su una recinzione bassa e leggera, con i pantaloni striati di erba e fango dietro cosce e glutei – come se fosse stata trascinata – e le suole perfettamente pulite, nel recinto interno dove l’accesso avviene solo con un pass in dotazione esclusivamente al personale medico nelle ore notturne. Katiuscia Favero che aveva denunciato un medico e due infermieri dell’Opg di Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova, per stupro e che fu rimandata al carcere di Genova dove, a seguito della violenza da lei denunciata 20 giorni prima, venne visitata con il risultato di un referto ginecologico in cui si riferivano lacerazioni “alle ore 6”, cioè nella parte inferiore esterna vaginale: un particolare che attestava il fatto in maniera inequivocabile perché significava che la donna tentava di tenere giù le gambe durante la violenza. Un referto però che poi sparì nel nulla, tanto che nel 2008 furono assolti sia il medico che gli infermieri denunciati da Katiuscia, per mancanza di prove.
Eppure le morti in carcere, i suicidi e i decessi poco chiari, i pestaggi, sono stati analizzati da “Morire in carcere”, indagine curata dal Centro Studi di Ristretti Orizzonti, che ha fatto un dossier su “le reali condizioni del carcere, a cominciare dallo stato di difficoltà e, a volte, di abbandono in cui si trova la sanità penitenziaria”: “pagine che raccolgono tutto quello che sappiamo sui detenuti morti”. Qui si analizzano “i casi nei quali la causa della morte non è circostanziata a sufficienza”, con uso di termini generici come “malore” o “arresto cardiocircolatorio” e i casi di overdose da droghe, psicofarmaci, alcool, gas delle bombolette da camping; ma anche i casi “nei quali le versioni ufficiali presentano zone d’ombra e incongruenze tali da far nascere il sospetto che mascherino episodi di maltrattamenti a opera di agenti o di violenza da parte altri detenuti”. Il primo gruppo è il più consistente, su questi “il riserbo degli operatori e dei magistrati è strettissimo”. Il secondo gruppo è rappresentato dai “casi nei quali c’è il sospetto che la morte sia stata causata da un pestaggio, compiuto da agenti, oppure da altri detenuti” e “si tratta di possibili casi di omicidio che, in attesa degli esiti dell’inchiesta giudiziaria, sono comunque catalogati come morti per cause naturali”. Come il suicidio di Luigi Acquaviva, morto nel carcere di Nuoro nel 2000 e su cui otto poliziotti penitenziari furono messi sotto indagine, che morì nella sua cella impiccato alle sbarre con un cappio costituito da una serie di calzini annodati. Una versione ufficiale a cui i familiari di Acquaviva non avevano creduto, avvalorati dalla perizia necroscopica dei consulenti del pubblico ministero, Vindice Mingioni e Roberto Demontis, che certificarono un fatto inequivocabile: e cioè che alcune ore prima della morte Acquaviva subì un violentissimo pestaggio, presentando ecchimosi su tutto il corpo, violenti traumi agli arti, alla testa, mentre in qualche parte mancavano lembi di pelle. “Un uomo fortemente debilitato – dice il dossier – che stando alla ricostruzione ufficiale avrebbe trovato la forza di impiccarsi, e che, per di più, avrebbe dovuto essere sorvegliato a vista”. O come Mauro Fedele, morto nel 2002 nel carcere di Cuneo, su cui la versione ufficiale parlò di arresto cardiocircolatorio malgrado Giuseppe Fedele, padre di Mauro, lanciasse accuse contro gli agenti di custodia dicendo che il corpo del figlio era “pieno di lividi, con ha la testa fasciata e segni blu su collo, sul petto, specialmente a destra, come uno zoccolo di cavallo”, e dichiarando che era chiaro che il figlio fu “riempito di botte, forse con i manganelli”, e che quindi era morto per questo.
Un dossier, quello di “Morire in carcere” in cui si dice apertamente che “a riprova del fatto che i pestaggi compiuti dagli agenti non sono eventi rarissimi”, esiste “il numero consistente di procedimenti penali dei quali danno notizia i giornali”: fatti su cui “per un detenuto è arduo denunciare d’essere stato picchiato, perché è esposto al rischio di ritorsioni, e perché sa che potrà vincere la causa soltanto producendo prove inconfutabili” in quanto “altrimenti sarà lui ad essere condannato per calunnia”. Raccolta di prove che nel carcere “viene spesso ostacolata”, alimentando così “il ragionevole sospetto che le denunce depositate in procura rappresentino soltanto la punta di un iceberg, dalle dimensioni difficilmente verificabili”.