Quando gli operai disperati delle acciaierie di Terni vengono picchiati dalla polizia mentre manifestano pacificamente per le vie di Roma, per rivendicare lavoro, diritti e dignità, quando una parlamentare del PD, sedicente partito di sinistra, arriva ad insinuare in una trasmissione televisiva che la segretaria della CGIL sarebbe stata eletta attraverso un sistema di tessere false, quando il Presidente del Consiglio, nonché segretario di quel partito, preferisce chiudersi per tre giorni con i suoi sodali in una ex stazione fiorentina anziché incontrare le rappresentanze di quegli operai e farsi carico dei loro problemi, quando accade tutto questo, a rimetterci non è solo il governo: è l’Italia.
Perché quello cui abbiamo assistito oggi è un clamoroso autogol ma anche un segnale: il sintomo che ormai la rabbia non si tiene più, la dimostrazione evidente che lo sconforto è al culmine, il segno tangibile che, d’ora in poi, sarà davvero dura tenere a freno la furia di chi ritiene di non avere più nulla da perdere ed è, dunque, pronto a tutto pur di far sentire la propria voce a istituzioni sorde e inadeguate.
E ciò che non ha capito il pie’ veloce Matteo è che i sindacati non sono una parte del problema ma l’unico, l’ultimo argine rimasto al dilagare esecrabile della violenza, alla barbarie della giustizia fai da te, del desiderio di vendetta, della ferocia, letale per la democrazia, che rischia di abbattersi sul nostro sistema-Paese se i milioni di precari, disoccupati e giovani che non studiano e non lavorano non riceveranno a breve risposte concrete ed incisive. Non ha capito, Renzi, che chiudere le porte al dialogo con i sindacati espone il suo governo al rischio di piazze sempre più tumultuose e difficili da fronteggiare; non ha capito che l’Italia non vive nel clima ovattato del salotto di Barbara D’Urso ma è un catino ribollente di rancori ed invidie, paure e speranze tradite e che, finora, le piazze pacifiche e costruttive della CGIL e delle altre organizzazioni sindacali sono state essenziali per incanalare un malcontento che non trova più sbocco né rappresentanza nei partiti, ormai liquefatti, ridotti a meri comitati elettorali di questo o quel leader, aeriformi e privi di una base, di un’ideologia, di un radicamento nella società e nelle innumerevoli pieghe delle sue tragedie.
Ciò che non ha capito Renzi è che sta sfidando un mostro che rischia di divorarlo e con lui tutti noi: e il mostro non si chiama Camusso, non si chiama Landini, non sono i corpi intermedi, le associazioni di categoria o i professoroni mangia-tartine; il mostro è la miseria, la fame, il terrore, il senso di ingiustizia che cresce di giorno in giorno e si muove come un fiume carsico, come i fiumi interrati malamente nella povera Genova che, alla fine, esplodono in tutta la loro bestialità, travolgendo vite, destini, sacrifici, senza guardare in faccia nessuno, senza un minimo di pietà perché la pietà non esiste più, è stata annientata, derisa, offesa e umiliata da chi pensa che si possa sempre ricorrere all’asfaltatrice e alla legge del più forte, anche quando ci vorrebbe l’umiltà di guardare negli occhi il prossimo e di chinarsi sui più deboli per osservare da vicino l’insostenibilità della loro condizione di oppressi.
Tentare di dividere a tutti i costi, insultare, picchiare, creare un clima ancor più rovente e teso di quanto già non sia è la negazione stessa della cultura di governo: è un’anti-politica di potere che, prima o poi, esplode nelle sue mille contraddizioni e travolge tutto e tutti, a cominciare da chi si considera erroneamente al riparo e pensa di poter continuare a guardare gli altri dall’alto in basso.
Allo stesso modo, non comprendere che, quando chiudono le acciaierie di Terni o di Taranto, quando chiudono i cantieri navali a Genova, quando chiudono le piccole e medie imprese nel Nord-est, non muoiono solo le speranze degli operai che vi lavorano e delle loro famiglie ma si disintegra l’intero tessuto sociale circostante, significa non aver capito che la dignità del lavoro non è solo un imprescindibile valore costituzionale ma è il senso, la ragione stessa del patto che ci lega come italiani, come cittadini, come persone, come membri di una comunità che condivide uno stesso destino. Significa non aver capito che sul Titanic è vero che i primi a bagnarsi e morire furono i passeggeri della terza classe ma non è che quelli della prima e della seconda se la siano passata tanto meglio. Significa illudersi che basti una chiacchierata in TV e un annuncio su un settimanale patinato per mettere a posto il mondo e andare avanti, senza rendersi conto che ormai siamo arrivati al limite, che c’è gente che non può più permettersi nemmeno l’acquisto di quel settimanale e soffre, non ne può più, è stanca di sentirsi esclusa e calpestata. Significa, in poche parole, mancare implicitamente di rispetto a quelle stesse istituzioni che si è stati eletti a rappresentare: istituzioni che, al pari della Costituzione e dello Statuto dei Lavoratori, sono costante sangue, morti, lotte indicibili e patimenti che nessuno di noi può neanche lontanamente immaginare. Significa, in conclusione, aver deciso che l’unica a correre dev’essere la locomotiva mentre gli altri vagoni possono pure staccarsi, deragliare, schiantarsi l’uno contro l’altro e pazienza se chi c’è dentro è un essere umano, un lavoratore, un italiano che, in teoria, dovrebbe godere degli stessi diritti di chi riceve due milioni di euro di finanziamenti per allestire la propria kermesse ed esaltare il proprio ego a favor di telecamera.
“Ho imparato che un uomo ha il diritto di guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi” scriveva Gabo Márquez ed era un premio Nobel.