Apertura di stagione ben faticosa, sotto il profilo economico, ma di ottimo livello sul piano artistico\espressivo al Teatro Quirino di Roma, dove L’Orchestra di Piazza Vittorio (policentrica e multietnica) festeggia ì le sue ‘centenarie’ repliche de“Il flauto magico” di Mozart. «Ogni volta pensiamo che il percorso del Flauto Magico sia giunto al termine – spiega Mario Tronco, il direttore artistico dell’orchestra – Poi, però, accede puntualmente qualcosa che ci dimostra come il cammino sia ancora molto lungo» . Ed è bene che lo sia perché il capolavoro mozartiano, rivissuto e rielaborato da questa ‘azzardata’, pacifista commistione di musicisti provenienti dai luoghi più dispersi del mondo (ma che, al quartiere romano dell’Esquilino, hanno avuto agio di conoscersi, frequentarsi, reinventarsi) è, innanzi tutto, un divertente e fiabesco prodigio (in forma di spettacolarità estrosa, pirotecnica) in cui la musica originaria si trasforma, con elaborata, apparente divagazione fra improvvisazione e naturalezza, in reggae, jazz, intrecci ritmici africani e orientali- mentre gli archi arieggiano la partitura originale.
Concepita come una favola tramandata in forma orale e giunta fino a noi attraverso le culture di appartenenza (dei vari musicisti), “II flauto magico” si trasfigura in scommessa musicale divertente , stupefacente, doviziosa di imprevedibili coinvolgimenti emotivi: lungo la riva del ludico e del nostalgico, del sentimentale e dell’immaginario onirico. “La leggerezza e l’allegria di questa rivisitazione, tanto libera quanto inaspettatamente fedele all’originale, vorremmo che fosse un inno carico di amore e di gioia di vivere”- conclude Mario Tronco. E il traguardo è ampiamente raggiunto, superato, decantato in fantasie adulte, senili, giovanili, senza plausibili ostacoli anagrafici.
Sotto il segno della ricerca e della contaminazione dei linguaggi musicali, a condurre noi tutti “nel cuore di un paesaggio situato a metà tra la realtà e il sogno” provvede quindi il paese utopico (ma non esente da distopie) ove Wolfgang Amadeus Mozart, in una improvvisata sala prove, ‘fece esplodere’ (ad un pubblico di parrucconi, come raccontava il gran film di Forman del 1984 ) una fiaba in cui s’incrociano i destini di principini e vagabondi, sotto uno ‘chapiteau’ di terrestre e celeste, fratellanza umana e (vacuo esercizio del) potere. Del resto, a ben vedere, “Il flauto magico” è il ‘nobile, non sussidiario spunto’ di uno spettacolo in cui (a partire dalle suggestioni classiche), i membri dell’Orchestra scandagliano personaggi e spartito emulsionando diversi generi teatrali (e musicali) in una forma ibrida di messinscena e di concerto para-felliniano. Ovvero con grande ordine e disciplina nell’apparente casualità ‘trasgressiva’ del costrutto scenico. Che, infatti, non ha nulla di pedante, virtuosistico, accademico (difetti che possono nascondersi anche dietro la più inusitata delle esecuzioni), plasmando così una delle più affascinanti metamorfosi del repertorio mozartiano- come è giusto che accada per tutte le esperienze teatrali che si fondano sul coraggio delle scelte e sulla determinazione delle esclusioni, rispetto alla filologia, al purismo della tradizione. “Il Flauto magico” dell’Orchestra di Piazza Vittorio, da questa prospettiva, non fa eccezione alla regola, evitando allo spettatore di doversi districare fra tutto il ciarpame di simbolismo massonico che incombeva (nonostante Amadeus…) sull’opera intera : non solo perché risibile e – si spera- estraneo ad una ‘sensibilità’ che vuol dirsi ‘conforme ai tempi’ . Ma soprattutto perché esso (il simbolismo esoterico, per iniziati) segnava le transenne ideologiche e poetiche che impedivano alla favola settecentesca di emanare, sino in fondo, il suo proposito di illuminismo ed emancipazione dell’uomo oltre il più soffocante d’ogni ordine gerarchico mai concepito da menti alienanti e alienate- dalla brama di un’omertà estesa a pochi intimi’. E alla quale Mozart dovette sottomettersi per umilianti cause di sopravvivenza familiare e avversioni ‘d’alto rango’, Salieri a parte (ancora un richiamo all’opera di Forman, esplicita ed impietosa in questo senso).
La favola approda invece ad una sua sorta di insperata ‘reincarnazione’ della dimensione favolistica. La quale, come del resto tutto lo spettacolo, non serve a nulla, né esige essere ‘catalogata’per generi. I tre piani su cui si dipana la storia – la musica con i suoi richiami diretti e indiretti a Mozart, le immagini che costituivano la scenografia dello spettacolo, e la ‘fabula’ in quanto tale – vivono di una reciproca autonomia che genera, fra i vari mezzi espressivi una polifonia di sfaccettature e di rimandi, il cui elemento unificante è costituito, palesemente, dalle scene di pantomima e di collettivo movimento, in un incessante, avvincente commistione tra stili, epoche e luoghi “che ci trasportano in viaggio sonoro” da cui è quasi impossibile atterrare senza la delusione del bel sogno al nostro amaro risveglio.