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Diffamazione e libertà di stampa, rischiamo di scendere sotto il 49° posto

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La cancellazione del reato di diffamazione sarebbe una buona notizia, se non fosse che la proposta di legge attualmente in discussione al Senato rischia di rivelarsi un cavallo di Troia. La pioggia di emendamenti che si è abbattuta su quella che, almeno nelle intenzioni, doveva essere una buona legge, una sorta di superamento del Medioevo normativo in tema di libertà di stampa, richiesto dall’Europa e dagli organismi internazionali, rischia infatti di peggiorare la situazione. Se adesso l’Italia è al 49esimo posto nel mondo per la libertà di stampa, l’approvazione di quelle norme potrebbe farla scivolare ancora più in basso. L’abolizione del carcere per i giornalisti non è sufficiente. Soprattutto se, come sta avvenendo, si cerca di appesantire l’obbligo di rettifica, imponendone la pubblicazione senza commento, senza risposta e senza titolo e obbligando perfino ad indicare il nome del giornalista “rettificato”. Senza contare la previsione di un nuovo reato: quello di cui sarebbe responsabile il direttore che non pubblica la rettifica richiesta dal suo giornalista.

Non può, poi, essere taciuto il tentativo di imbavagliare il web, prevedendo l’obbligo di cancellare una notizia ritenuta diffamatoria prima ancora della celebrazione di un eventuale processo. Nulla si dice sulle liti temerarie. Tutti potranno continuare a citare in giudizio i giornalisti, chiedendo risarcimenti milionari al solo fine di intimidirli. In caso di rigetto della domanda, saranno condannati a pagare le spese processuali e non, come raccomanda la Corte europea dei diritti dell’Uomo, anche ad un congruo risarcimento.

L’impressione è che il legislatore italiano non abbia mai letto il rapporto Onu sull’Italia redatto da Frank La Rue, Relatore speciale sulla promozione del diritto alla libertà di espressione,  adottato il 29 aprile scorso. A parte le censure sulla diffamazione e sulla mai risolta questione del conflitto di interessi, nel Rapporto è scritto chiaramente che vanno bloccati gli assalti ai giornalisti in sede giudiziaria. Troppe azioni di risarcimento senza alcun fondamento rappresentano soltanto una forma di intimidazione. Per questo l’Onu chiede che coloro che promuovono azioni temerarie siano condannati non soltanto al pagamento delle spese giudiziarie, ma anche ad una sanzione economica equivalente al risarcimento richiesto al giornalista. Su questa linea, del resto, è attestata da tempo la Corte europea dei diritti dell’Uomo, la cui giurisprudenza costante stabilisce che condannare i giornalisti a risarcimenti pecuniari elevati comporta una violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea, che tutela la libertà di espressione.

Non stupisce che la classe politica italiana, in modo assolutamente trasversale, cerchi di imbavagliare i giornalisti e di limitare la circolazione delle notizie, comprimendo di fatto il diritto di tutti i cittadini ad essere informati. E’ però imbarazzante, oltre che inaccettabile, il clima di indifferenza e di rassegnazione che accompagna il dibattito parlamentare. Le autorevoli prese di posizione registrate fino ad oggi rischiano di avere lo stesso effetto di tante piccole voci che gridano nel deserto. Serve una presa di coscienza. Il 3 ottobre 2009 i giornalisti italiani e migliaia di cittadini parteciparono alla mobilitazione per la libertà di stampa, contro il bavaglio e i divieti, promossa dalla Fnsi in piazza del Popolo, a Roma. Ora come allora, è il momento di reagire.


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