È possibile visitare una mostra seguendo esclusivamente la nostra immaginazione? Lo è, ed è quello che oggi ci apprestiamo a realizzare: ammirare il Caravaggio che è sotto gli occhi di tutti senza bisogno di un evento organizzato. La mostra è itinerante, i suoi luoghi sono la chiesa di San Luigi dei Francesi e la chiesa di Santa Maria del popolo. L’ingresso è libero. Ora ci occorrono le parole per accompagnare il nostro viaggio e noi faremo nostre quelle di Roberto Longhi, storico dell’arte capace di ricostruire il pensiero, le passioni, le verità nascoste di un artista come Caravaggio.
Entrando nella chiesa di San Luigi dei Francesi ci sembra di ascoltare la critica ‘apparente’ che racconta il Longhi: “il Caravaggio era un gran talento, non si nega, ma venuto per distruggere la pittura. Figurarsi, che pretendeva di darci il mondo com’è, senza abbellirlo affatto”. Verso la fine del cinquecento Michelangelo Meris
Nella Vocazione Matteo è intento al suo lavoro tra alcuni astanti e nella penombra di un antico magazzeno fino a che qualcosa “(la luce) o qualcuno (il cristo)” viene a distoglierlo. Infatti racconta il Longhi: “Non v’è vocazione di San Matteo senza che il raggio insieme con il Cristo entri dalla porta e ferisca la turpe tavolata dei giocatori d’azzardo”. La struttura espressiva è permeata da un appassionato riscontro morale come in tutte le sue future commissioni ecclesiastiche; Matteo Il pubblicano è redento dalla grazia.
Di fronte alla Vocazione, Il martirio del Santo, rovesciato sui gradini dell’altare con il manigoldo che sta per finirlo di fronte ai presenti venuti per la messa. Un uomo in primo piano che “con un gesto fatuo sull’elsa ribatté nel fodero” e, intorno, i molti attoniti, tra cui il Caravaggio stesso; un meraviglioso autoritratto con baffi e moschetta: tutti presenti come a una comune rissa in strada. Le mani levate in gesti di stupore e di orrore, gli abiti contemporanei e, al centro, quello che Longhi descrive come “il nudo fortemente inciso d’ombre” del carnefice: il sangue di Matteo che cola dal petto nell’acqua, a redimere i peccati. Al centro della cappella c’è la seconda versione del San Matteo e l’angelo: il formato della tela spinge Caravaggio a immaginare “che gli angeli, almeno gli angeli, possano volare”.
Usciti da San Luigi dei Francesi passiamo attraverso strade che “il giovinetto irsuto e melanconico” ha percorso con il suo barbone Cornacchia mentre andava a giocare alla pallacorda, a corteggiare donne, a litigare. A mescolare la vita con l’arte. Sono gli anni delle furibonde liti con il Baglioni e dell’aggressione a colpi di spada al notaio Pasqualone, che gli corteggia la donna Lena, bellezza classica ispiratrice dei volti della Madonna di Loreto e della Madonna dei Palafrenieri.
Pochi passi attraverso le vie di Roma per dirigerci in Santa Maria del Popolo: sulle pareti laterali la Crocefissione di San Pietro e la Conversione di San Paolo, commissionate nel 1600 dal monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere papale. Nella Crocefissione (laterale sinistro) il santo, notissimo modello buono di via Margutta, già inflitto alla croce, ci guarda cosciente, ci coinvolge nella vicenda rappresentata, ci proietta nel fondo d’ombra che prevale al centro della scena nella Conversione (laterale destro). Caravaggio argina quel vuoto con il mantello di Paolo e ci permette di metterci dalla parte dello scavalcato che si ritrova a terra “la massa enorme del cavallone pezzato la bava che cola dal morso”.
Caravaggio ci consegna così alcune tra le opere più rivoluzionarie di tutta l’arte sacra: non mirava a dipingere “né i peggiori, né i migliori ma semplicemente i suoi simili, gli eguali”.