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L’autunno di Matteo Renzi

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Ci perdoni Gabo Márquez se scomodiamo uno dei suoi capolavori, “L’autunno del patriarca”, per narrare le vicende di un più modesto Presidente del Consiglio italiano alle prese con un autunno che si preannuncia non caldo, come il nostro eroe ha più volte ironizzato, ma bollente, nel senso che rischiamo di dover fare i conti con una manifestazione al giorno e un clima che nel Paese non si ricorda dai tempi dei cosiddetti “Anni di piombo”. Ci perdoni, anche perché qui non si narra l’epopea di un generale-dittatore: Renzi ha mille difetti, non gli abbiamo mai lesinato una critica che sia una, ma l’accusa di autoritarismo, pur sostenuta da persone che stimiamo e verso le quali nutriamo la massima fiducia, ci ha sempre suscitato un certo scetticismo.

No, Renzi non è autoritario: è un perfetto cantore ed interprete di quel fenomeno che abbiamo più volte definito “antipolitica di governo”, ossia populismo spicciolo misto a battute, una certa fatuità, una capacità naturale di entrare in sintonia col pubblico e il gioco è fatto, a scapito dei contenuti, dell’approfondimento, delle proposte e del valore stesso di un’attività politica oramai declassata a intermezzo fra un cinguettio e l’altro. Tuttavia, un aspetto in comune col protagonista del romanzo di Márquez ce l’ha: la solitudine. Sì, Renzi è un uomo solo: d’altronde, l’ha sempre detto e se ne è anche vantato, al punto di arrivare addirittura a citare Fausto Coppi nel suo ultimo libro e ad elevare la sua corsa solitaria nella leggendaria Cuneo-Pinerolo del 1949 a modello politico da seguire.

Peccato che, volendo rimanere nella metafora ciclistica, sia di gran lunga preferibile l’immagine di Bartali che porge la borraccia al rivale di una vita: un’immagine “bersaniana”, se vogliamo, ma anche un modo di intendere la società, i rapporti umani, la competizione e l’agonismo, fenomeni dietro i quali non ci sarebbe nulla di male se non fosse che oggi sono intesi in un’accezione totalmente sbagliata, come scontri all’ultimo sangue anziché come normali confronti di idee e proposte fra persone che condividono uno stesso orizzonte.

Il punto è che con Renzi quest’orizzonte non esiste, e quel poco di ideologia, di senso della comunità, della solidarietà e dello stare insieme che resistono, inossidabili, alla corrosione del tempo, delle delusioni e delle larghe intese è ormai appannaggio di generazioni con i capelli bianchi mentre i più giovani, nati e cresciuti nel pieno del berlusconismo, hanno finito con l’ereditarne i caratteri e lo smodato amore per un’apparenza che prevale sulla sostanza.

Prendiamo, ad esempio, la Festa dell’Unità che si è conclusa ieri a Bologna. Malgrado il luogo e a dispetto della tradizione, del passato e dei costanti riferimenti a Berlinguer nel trentesimo anniversario della scomparsa, il discorso conclusivo del segretario-premier ha rappresentato l’apice, diremmo quasi l’essenza, del renzismo: una narrazione del tutto post-ideologica, in cui la storia non è la base e il fondamento della riflessione ma, al massimo, lo sfondo, con ogni tassello disposto in modo da lasciar spazio e poter esporre l’auto-celebrazione dell’io, del leader, dell’uomo solo al comando, capace di arrivare là dove nessuno era mai riuscito prima, di osare là dove nessuno aveva mai tentato, di spingersi oltre limiti, barriere e punti fermi che un tempo chiamavamo valori mentre oggi sono stati trasformati in inutili vezzi per passatisti fuori tempo massimo, vecchi arnesi di una politica che non esiste più, ha fallito e ha l’obbligo di cedere il passo alle aitanti nuove leve del modernismo imperante.

E così, Berlinguer e i militanti storici vengono utilizzati per scaldare la platea, al pari dell’omaggio, chissà quanto sentito, nei confronti di Bersani ed Errani, massimi esponenti di quella “ditta” che il rottamatore ha mandato in soffitta e additato come causa di tutti i mali del Paese, compresa, a suo dire, la permanenza ventennale al potere di quel Berlusconi con cui, fra un tweet e l’altro, il nostro non perde occasione di vedersi per discutere di riforme costituzionali, legge elettorale e, a quanto pare, anche dei tratti salienti della riforma della giustizia.

Un discorso furbo, dunque, perfettamente adattato al contesto e alla platea, come il discorso nella rubinetteria bresciana era perfettamente adattato al contesto della fabbrica operosa in cui ci si “spacca la schiena” e si bada al sodo, alle cose concrete, senza lasciar spazio all’approfondimento e alle chiacchiere da salotto buono in stile Cernobbio.
Basta ascoltarli con attenzione, dunque, per comprendere che i discorsi di Renzi non hanno mai un fondamento ideale o una preparazione alle spalle: si basano sempre sull’improvvisazione e sullo show, come la recita dello scolaro poco preparato ma abilissimo nel dire ad ogni professore ciò che vuole sentirsi dire, come se lo vuole sentire dire e dando l’impressione di sapere tutto o, comunque, quanto basta per ottenere un buon voto.

In sede internazionale, non mancano mai riferimenti alla cultura italiana e ai geni prodotti dal nostro Paese; in sede PD, non manca mai l’afflato europeista e qualche riferimento ai migranti, al dramma di Srebrenica e ai grandi temi universali sui quali è facile andar tutti d’accordo; in sede confindustriale o comunque imprenditoriale, prima o poi, arriva immancabile la stilettata all’indirizzo dello Stato e della Pubblica Amministrazione, nonché della classe politica che “deve lasciare in pace” chi crea e ha il coraggio di rischiare; in televisione, infine, botte da orbi all’indirizzo dei “gufi, rosiconi e disfattisti che frenano il cambiamento”, siano essi i tremendi dissidenti della minoranza interna o i perfidi tecnici delle camere e dei vari ministeri, perché la platea è ampia e la costruzione artificiale del nemico è risaputo che, oltre a ricompattare le proprie truppe, funziona a meraviglia per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dal proprio operato e concentrarla su un bersaglio inventato di sana pianta (ad esempio i “pensionati d’oro”) ma comunque efficacissimo.

Il vero guaio è che il Premier non ha ancora compreso fino in fondo che stare a Palazzo Chigi non è come organizzare una Leopolda o arringare una folla e che se non si è animati da una solida visione ideale, se non si ha in mente un modello di società, di crescita, di sviluppo e di futuro, in un modo o nell’altro, i nodi vengono al pettine e a quel punto non c’è alibi o giustificazione che tenga perché il giudizio dell’opinione pubblica, soprattutto in una fase di crisi acuta come quella che stiamo vivendo, giunge implacabile.

Per questo Renzi risulta senz’altro più simpatico di Letta, classico studente preparatissimo ma poco comunicativo, capace di conseguire ottimi voti ma non di suscitare l’acclamazione della classe, ma è, all’atto pratico, assai meno concreto, meno efficace e meno utile a una Nazione che, dopo vent’anni di leader carismatici, interrotti, di tanto in tanto, da qualche persona seria alla Prodi o alla Amato, avrebbe più che mai bisogno di una classe dirigente in grado di riscattare l’immagine del nostro Paese nel mondo, possibilmente senza ricorrere alle misure economiche tanto care alla signora Merkel e agli ultra-liberisti nordici.


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