Lo strapotere del capo del governo

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Pierluigi Petrini

La ministra Maria Elena Boschi, esperta in diritto societario e madre costituente, nell’illustrare la riforma del Senato, ha affermato: “Qualcuno parla di svolta autoritaria: questa è un’allucinazione e come tutte le allucinazioni non può essere smentita con la forza della ragione”. Ha poi suggellato il concetto con una scialba citazione di Fanfani: “In politica le bugie non pagano”. Gli allucinati bugiardi sarebbero i più illustri costituzionalisti italiani. Da Pace ad Azzariti, da Carlassare a Zagrebelsky, da Rodotà a Urbinati. Alcuni dei quali sono stati da lei auditi in commissione dove, con la forza della ragione, le hanno spiegato perché ritengono questa riforma un vulnus per la democrazia rappresentativa. Riproviamo con parole più semplici. La legge elettorale proposta dal governo e privatamente pattuita al Nazareno, ripercorrendo la logica già affermata dal “porcellum”, ha la finalità di creare ad ogni costo una maggioranza di governo, nel nome di una governabilità che si realizzerebbe non nella capacità di cercare soluzioni, ma nel potere d’imporre decisioni. La sera stessa delle elezioni gli italiani, felici, sapranno chi li governerà. Vent’anni di diseducazione istituzionale e di travisamento della Costituzione, infatti, li hanno irrevocabilmente convinti che l’essenza della democrazia sia nella scelta del capo piuttosto che nel controllo del suo potere, cancellando d’emblée secoli di storia del costituzionalismo. Chi vince, dunque, comandi (ammesso che sappia cosa fare), chi perde si sottometta. Amen. Questa rozza semplificazione comporta la conseguenza che le elezioni saranno sempre più orientate non a eleggere il parlamento, ma il capo del governo, a cui sarà data in dote una congrua maggioranza parlamentare. Le campagne elettorali, quasi totalmente monopolizzate e condizionate dai media televisivi, si concentreranno sulla contrapposizione tra i leader, mentre i parlamentari, imposti in liste bloccate, brilleranno solo di luce riflessa come portavoce della loro leadership. Il legame degli eletti con il territorio sarà sempre più evanescente, quello con il capo, da cui dipendono le loro future sorti, ferreo. Ogni espressione di dissenso sarà in odor di tradimento, essendo imperativo il mandato ricevuto di riflesso dalla consacrazione popolare del leader. Il rapporto gerarchico tra governo e parlamento viene così ribaltato. E’ il capo del governo a legittimare il parlamento e non viceversa, al punto che alla eventuale decadenza dell’esecutivo verrà posta in dubbio la legittimità dell’assemblea a cercare nuove maggioranze e nuove leadership. Già i governi Monti e Letta sono stati ripetutamente tacciati, anche da autorevoli commentatori, di una legittimità spuria non avendo avuto nessuna investitura popolare.  Concetto rafforzato, ancorché disatteso, da Renzi, che aveva giurato che mai sarebbe asceso a Palazzo Chigi senza un consenso elettorale. Si va così realizzando, in conflitto con la natura parlamentare della nostra costituzione, un presidenzialismo occulto che assume i caratteri dell’iperpresidenzialismo, poiché nel presidenzialismo correttamente inteso il Parlamento ha una sua autonoma legittimazione che gli garantisce poteri di controllo e d’interdizione nei confronti dell’esecutivo. Questa drammatica frattura fra la costituzione formale e quella materiale rende fragile e opinabile tutto l’impianto istituzionale, trovando certezza solo nella legittimazione elettorale del capo di governo. Qui sta il punto che sfugge alla ministra esperta in diritto societario. La riforma del bicameralismo, seppur aspramente criticabile nella sua configurazione, non sarebbe di per sé foriera di stigmate autoritarie se non stabilisse il devastante precedente per cui qualunque leader consacrato dal consenso popolare e che abbia rimorchiato in Parlamento una “sua” maggioranza, potrà mettere mano alla costituzione, trovando abbondanti giustificazioni logiche nello scollamento che la stessa ha subito. Potrà variare la forma di governo, decidendo delle proprie attribuzioni e ridisegnare tutti gli istituti di controllo. Ed è difficile immaginare che un Senato elettoi indirettamente dagli organismi politici regionali e locali, pur conservando un potere legislativo sulle materie costituzionali, possa porsi come argine a questa deriva. Se lo facesse, non si determinerebbe una querelle legislativa, ma un conflitto istituzionale del tutto squilibrato fra un leader forte della sua legittimazione popolare e i ben più deboli, impersonali e incompetenti poteri periferici. Potrebbero allora variare la composizione e le modalità di elezione del CSM portando sotto il controllo della politica le carriere e i procedimenti disciplinari dei magistrati (con il plauso di tutti i consigli regionali). Quell’occhiuta Corte Costituzionale, che tanti fastidi ha regalato ai governi, potrebbe essere manipolata nella sua composizione e addomesticata. Il Presidente della Repubblica potrebbe iniziare il suo discorso d’insediamento ringraziando il Presidente del Consiglio per averlo designato. I partiti, privi di ogni finanziamento pubblico, si ridurrebbero infine a comitati elettorali finanziati dal leader, ovvero dalle lobby economico-finanziarie che lo sostengono. Il premier non dovrà invece preoccuparsi di ricondurre al proprio controllo le cosiddette autority. E’ un lavoro già fatto in partenza. Però la ministra ha forse ragione. Per essere autoritari occorre avere un minimo di autorevolezza. Non è il loro caso. Questo è solo il disfacimento della democrazia nell’ignoranza.
P.S. Qualcuno obietterà che il capo dello stato ha espresso concetti analoghi a quelli della ministra. Per il rispetto istituzionale che ho e che predico, non intendo commentare.

Da libertaegiustizia.it

 


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