Il mondo brucia. La Striscia di Gaza, la Siria, l’Ucraina: era dai tempi del conflitto fra Israele e il Libano (anno 2006) che i telegiornali non dedicavano tanto spazio a ciò che accade all’estero, a dimostrazione che, purtroppo, solo il sangue, il dolore e la sofferenza fanno davvero notizia in questa società imbarbarita e ormai in preda alla rabbia e al risentimento.
Non a caso, Gad Lerner ha scritto su “la Repubblica” una riflessione che merita di essere meditata attentamente: “La sensazione è che la guerra di Gaza non sia solo tragicamente inutile ai fini della sicurezza degli israeliani e della dignità dei palestinesi, ma che sia diventata anche contagiosa. La nozione di nemico si è estesa a tal punto da divenire extraterritoriale, alimentata da un fanatismo che di nuovo universalizza la colpa di essere ebrei. Oppure il destino di essere palestinesi, arabi, musulmani. Rintracciare il nemico in ogni arabo e in ogni ebreo, spaventarlo ovunque si trovi, è l’ultima arma impropria di una guerra senza sbocchi”.
Perché è questo che sta accadendo sotto i nostri occhi distratti: il conflitto israelo-palestinese, al pari di quello russo-ucraino, oltre a degenerare, si sta espandendo a macchia d’olio, fino a penetrare all’interno delle nostre società che, ingenuamente, continuano a sentirsi estranee, al riparo, come se fosse giusto, degno o tollerabile assistere da spettatori a un massacro che, in realtà, ci coinvolge eccome, assai più da vicino di quanto non crediamo, visto che ogni paese della Comunità europea racchiude in sé una miriade di etnie, storie, religioni, comprese quelle dei popoli in guerra che, magari, lavorano nello stesso ufficio o nella stessa azienda, mandano i figli nella stessa scuola, sono vicini di casa.
Negare il nostro coinvolgimento, dunque, oltre che ipocrita, è anche assurdo perché sarebbe come negare l’esistenza della società globale e multietnica, di questo mondo vario e interconnesso in cui le notizie si conoscono in tempo reale e le tragedie del prossimo finiscono sempre col trasformarsi nelle nostre, come vediamo ogni giorno sulle coste siciliane presso le quali approdano barconi di disperati in fuga dalla miseria, dai conflitti e dalla fame di un Continente che, a causa dello scempio perpetrato per decenni da noi occidentali, fatica ancora a trovare un’identità.
Senza contare la tremenda sorte toccata alle trecento vittime dell’aereo malese abbattuto nei cieli dell’Ucraina, pare dagli insorti filo-russi: trecento innocenti che nulla avevano a che vedere con la barbarie che si sta consumando da mesi in un paese che fatica, a sua volta, a trovare un’identità compiuta, soggetto a continue tensioni e a golpe striscianti che spesso si concretizzano in cambi di governo dai contorni alquanto discutibili.
Due vicende diverse, due paesi che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro, accomunati a livello storico unicamente dalla malvagità e dalle persecuzioni naziste, eppure legati a filo doppio come tasselli di un mosaico internazionale devastante, in cui l’Europa è accerchiata da conflitti laceranti e tristemente inerte, priva di una voce comune, di una linea politica estera condivisa o anche solo di un commissario che possa provare a mediare fra le ventotto posizioni diverse dei paesi membri dell’Unione.
Eppure, mai come in questo momento, con l’America di Obama arroccata in un comprensibile ma non giustificabile isolamento, servirebbe come l’aria una presa di posizione forte del Vecchio Continente, ricalcando l’iniziativa assunta nel 2006 dal governo italiano, e in particolare dal ministro degli Esteri D’Alema, che convocò a Roma una conferenza di pace per decidere una linea comune d’intervento nel conflitto in corso fra Israele e il Libano. In pochi giorni, si giunse a un accordo per l’invio di una forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano, con lo scopo di sedare il conflitto e favorire un progressivo ritorno alla normalità dopo un mese di bombardamenti, morte e distruzione. Al tempo stesso, sarebbe opportuno che l’Europa si facesse sentire in sede ONU per coordinare un piano di soccorsi e aiuti umanitari alle popolazioni civili stremate e ormai ridotte alla miseria; come sarebbe necessario che il Vecchio Continente creasse un corridoio umanitario e dei centri d’accoglienza di carattere europeo per sottrarre i disperati che affrontano viaggi oltre i limiti dell’umano dalle grinfie di scafisti senza scrupoli, consentendo loro di arrivare sulle nostre coste in maniera sicura e di essere accolti e assistiti degnamente.
Per non parlare, poi, della spinosa questione dell’embargo militare verso Israele, rilanciata in questi giorni da novantotto artisti, premi Nobel e intellettuali, e della non meno spinosa vicenda della divisione dell’Ucraina e delle conseguenze, soprattutto di carattere energetico, che potrebbero derivare dalle tensioni crescenti in quella regione-polveriera. Inoltre, ci vorrebbe un’Europa forte e autorevole anche per ridefinire i rapporti con Putin e chiarire una volta per tutte le intenzioni del leader russo: vuole essere un novello zar, animato dal sogno irrealizzabile di far rivivere l’Unione Sovietica, o, al contrario, si pone come un partner commerciale imprescindibile nella composizione dei futuri assetti geo-politici e geo-economici?
Peccato che l’Europa sia troppo impegnata a litigare sulla spartizione di poltrone in seno alla prossima Commissione per occuparsi di simili quisquilie, dimenticandosi del fatto che potrebbe essere travolta da un momento all’altro dal corso impetuoso degli eventi, senza sapere minimamente come orientarsi. Se ciò dovesse accadere, persino i tecno-burocrati sarebbero costretti ad accorgersi che il vero problema non sono i nomi ma le politiche da seguire e l’indicazione dell’orizzonte verso cui tendere; dopodiché, come se niente fosse, tornerebbero a discettare di spread e rigore nei conti pubblici, arroccati in una torre d’avorio che, prima o poi, rischia di crollare loro in testa.